Perdonare
La misteriosa arte del perdono

È una natura vagamente ambivalente, quella del perdono che, se da una parte si mostra come un gesto dall’indubbia valenza etico-morale, dall’altra giunge in conseguenza di una colpa, più o meno riprovevole, cui risulta imprescindibilmente connesso.

È forse questo il suo aspetto più misterioso. Quello di porsi come anello di congiunzione tra una dimensione encomiabile ed una deprecabile, tra una realtà positiva ed una negativa, smentendone l’apparente inconciliabilità.

Cosa significa perdonare?

Perdonare va di pari passo con la capacità di valicare l’importanza del dolore provocatoci dall’altro, e se non consente una totale cancellazione della colpa, in una sorta di abolizione mnestica che ne impedisca persino il ricordo, di certo consente di limitarne le consequenzialità offensiva, rendendola un elemento periferico, occasionale e per questo superabile. In vista di una ricostruzione affettiva, attesa e desiderata.

I molteplici significati del perdono

Dal punto di vista psicologico la dimensione del perdono può essere definita come l’abbandono di un’emozione negativa in direzione di un intento positivo, conciliante e mitigato da sentimenti di compassione per un torto subito.

I vissuti che sottendono la sua maturazione, lungi dal manifestarsi il frutto di un atto immediato e scevro di riflessioni, sono spesso la conseguenza di un’opera di intensa analisi interiore, cui consegue quella evoluzione cognitivo-affettiva indispensabile per l’abbandono dei sentimenti narcisistici considerati il principale impedimento di una condotta assolutoria.

Per quanto si possa supporre il contrario, il perdono è soprattutto il prodotto di un’attività interiore, nella quale la dimensione egoica si trova coinvolta nella scelta conflittuale  tra un sentimento di  amore verso il Sé e un’intenzionalità essenzialmente orientata all’altro.

Pur nella sua valenza etica universalmente condivisa, esso si presenta un elemento ostativo al mantenimento di un senso di coesione interiore e di amor proprio; spesso assume le vesti di un affronto a quell’orgoglio narcisistico che dalla colpa è stato ferito, e che, sotto il peso di questa offesa, è in cerca di riparazione. Di rivalsa.  

Dati i presupposti, la natura umana non è istintivamente portata alla sua concessione: ciò che cerchiamo è piuttosto la vendetta, la compensazione, la punizione di colui che ci ha danneggiato, procurandoci dolore. Soltanto dopo che la colpa è stata giustamente pagata, e gli equilibri tra chi ha ferito e chi ha subito sono stati ristabiliti, siamo al limite disposti a concedere un indulto. Sofferto, spesso parziale, e mai definitivo, che ben poco ha a che spartire col filantropico perdono cristiano, in cui si porge l’altra guancia, e il nemico, alla fine, non viene neppure considerato tale.

È veramente alto il prezzo che il perdono ci chiede di pagare. Dopo aver subito un torto, dobbiamo addirittura farci prossimi a colui che ci ha danneggiato, mettendo a tacere il dolore che grida nel cuore e brucia sulla pelle, chiedendo la “giusta” riparazione.

Per questo non può e non deve essere considerato un atto istintivo. Se lo fosse non giungerebbe mai, in quanto sarebbe sempre la vendetta- nel senso più impetuoso e ferino del termine- e prendere il suo posto.

In realtà il perdono è il prodotto di un processo di auto esplorazione, di silenziamento del proprio egoismo; comporta l’impegnarsi in un cammino di riflessione che non pretende ricompensa perché rifugge i concetti stessi di pretesa, spesso sconfinata e senza oggetto, e di vendetta, insaziabile e crudele più del torto stesso.  La sua concessione richiede tempo, e difficilmente si presenterà all’indomani della colpa subita. È necessario un processo di rielaborazione interiore, in cui il moto impulsivo delle emozioni trova contenimento nelle capacità adattative di un pensiero pro sociale, favorito dalla volontà empatica di farsi prossimi all’altro mettendo da parte il rancore. Non è pertanto erroneo definirlo un processo graduale, più che un’entità statica, in cui anche la personalità del soggetto offeso e quella del’offensore, così come il peso e l’entità della colpa, costituiscono possibili variabili alla sua concessione.

Il perdono rinnega il concetto di condanna prestandosi ad una coraggiosa incursione nell’alterità del colpevole, a sua volta ispirata da un allontanamento del Sé quel tanto necessario da valutare prospettive diverse dalla propria, e costruire altre verità rispetto a quelle individuali.

Così il perdono è anche un’operazione empatica, a mezzo della quale riusciamo ad immaginare cosa possa aver ispirato l’azione colpevole, sviluppando aspetti mentalizzanti e pro sociali.

Io non lo avrei mai fatto, non esiste più. L’IO stesso perde  di valore, di fronte al miracolo del perdono, perché sceglie volontariamente di integrare parti del Sé con quelle dell’altro, nella consapevolezza di non star perdendo nulla, ma di star ritrovando qualcosa di perduto.

Ciò lascia intendere che non v’è nulla di debole o acquiescente, nel perdono, nulla di fragile o pusillanime. Si tratta al contrario di un immenso atto di coraggio, frutto di una maturità a sua volta generosa, perché capace di dimenticare se stessa, di farsi da parte in favore dell’altro.

E non dimentichiamo colui che, pur dopo la colpa, il perdono ha l’ardire di chiederlo. Postulare per sé il perdono- nel caso in cui la domanda sia ispirata da lealtà di intenti e sentimenti- rappresenta forse uno degli atti più nobili che la natura umana possa compiere. Raggiungere la consapevolezza del proprio errore e pentirsene in modalità operativa è frutto di una maturazione interiore che supera, in profondità e valenza, il peso dell’errore stesso. E se tutti possiamo sbagliare, non è altrettanto onesto affermare che tutti siamo in grado di chiedere scusa per gli errori commessi.

Ci chiediamo: il perdono dipende dall’altro?

In parte, è plausibile rispondere in maniera positiva. Sicuramente, se riceviamo le scuse del nostro offensore o percepiamo il suo dispiacere per il dolore infertoci, sarà più facile intuire da parte sua la presenza di una consapevolezza dell’errore e una volontà di rimediare. E dunque sarà più facile fare un passo verso di lui.

D’altro canto credere che la concessione del perdono dipenda soltanto da questo aspetto farebbe un torto alla natura squisitamente individuale del perdono, che risulta un atto di matrice tutta interiore, effettuato da un Sé che è sceso a patti con la propria soggettività decidendo di limitarne la portata narcisistica in favore di un’evoluzione altruistica. Popolata dall’altro.

Il perdono e l’idealizzato: due aspetti contrapposti

Il perdono si mostra come un autentico atto di negoziazione intrapsichica, in cui il perdonante accetta di infrangere la visione idealizzata dell’oggetto che lo ha ferito per sostituirla con un’altra in cui sono possibili l’errore, la caduta, la delusione; e tuttavia anche la ricostruzione.

La presenza di un oggetto idealizzato è fortemente ostativa alla concessione del perdono: perché carica l’oggetto di un sovrainvestimento- del tutto irrealistico- nel quale l’errore non viene ammesso. L’altro si è rivelato dissonante rispetto alle aspettative, ha violato il patto segreto che l’Io dell’offeso aveva segretamente stipulato con lui, investendolo di attese volte ad appagare un bisogno di perfezione, di sicurezza, di controllo assoluto dell’Altro.

Se non fosse che l’Altro è altro da Sé. Non è pertanto possibile controllarne l’agito e l’intento, e questo è il primo passo da effettuare per dare spazio ad una visione indulgente del suo comportamento, per quanto colpevole e foriero di sofferenza. Da questo punto di vista perdonare significa anche mostrare tolleranza verso l’errore, ammettere che chiunque in fondo può sbagliare e che tutti meritano una seconda possibilità.

Ma il perdono è altresì un gesto di gratitudine. Nel caso di una colpa commessa da qualcuno di affettivamente significativo- prendiamo ad esempio il tradimento del partner, o un torto subito da un fratello, da un genitore, da un amico caro- il gesto del perdono comporta il riconoscimento che l’oggetto colpevole, se in quella circostanza si è rivelato foriero di dolore, in altre occasioni è stato capace di procurarci vissuti di sicurezza, amicizia e amore che tanto hanno contribuito a costruire la nostra solidità interiore.

Col perdono si decide di rendere omaggio  al bene ricevuto e di farlo prevalere sul male subito, concedendo al “perdonato” la possibilità di rimediare, e a noi stessi la capacità di accettare che nel medesimo oggetto possano simmetricamente coesistere aspetti positivi e negativi. Senza nessuna compromissione.

La visione di una realtà in cui l’ambivalenza è sostituita da una dicotomia scissoria, in cui bene e male sono incapaci di convivere in una medesima dimensione, non è più attendibile. Né opportuna per la costruzione di una buona vita relazionale.

Non riusciremmo a tenere in piedi nessun rapporto se decidessimo di dar più peso alla colpa che all’ “offensore” e al legame che a lui ci unisce, se rendessimo la colpa l’unico elemento saliente all’interno del rapporto, e volessimo sostituirla con la soggettività di colui che l’ha commessa, in una identificazione totale. L’altro non esisterebbe più come individuo, ma soltanto come “colpevole”. Tutto il resto sarebbe dimenticato.

L’investimento egoico diventerebbe così cogente e imperativo da nullificare qualsiasi altro aspetto, e nella convinzione di proteggersi si esporrebbe in realtà ad un terribile rischio: quello di condannarsi ad una chiusura relazionale in cui l’ambizione della vendetta e l’illusione della compensazione generano un odio ingannevole che non porta frutto. E certo non restituisce ciò che la colpa ci ha tolto, per quanto possiamo convincerci del contrario. Al di là degli aspetti empatici e pro-relazionali, il non perdono genera un’autentica desertificazione egoica, in cui non v’è spazio per la negoziabilità del conflitto  né per la volontà di recuperare l’altro, e con esso quella parte del Sé che nell’altro indubbiamente si riflette, e si completa.

La scelta spetta a noi. Possiamo scegliere di accanirci nel ricordo dell’errore, illudendoci che l’ossessione della vendetta ci consentirà di riottenere ciò che col perdono troverebbe una morte definitiva. Oppure possiamo credere che sia proprio la vendetta a mantenere per sempre una colpa in vita. A reificare il fantasma di un fio che per quante volte verrà pagato, non soddisferà mai abbastanza la sete di rivalsa, né colmerà i vuoti egoici irreversibilmente provocati dall’offesa.

Il potere equilibrante e trasformativo del perdono

Il perdono è un gesto adattivo e flessibile, è un atto di compromesso, mai compromissorio, che annuncia una volontà di rinnovamento e re-inizio. 

Chiedendoci di dimostrare quanto siamo capaci di allontanarci da noi stessi, esso rappresenta  un avveduto bilanciamento tra valori egoistici e altruistici, tra dimensioni di bene e male, di tolleranza o perfezionismo.

Uno dei meriti dell’indulgenza è quello di ristabilire l’equilibrio interiore. Di rimettere ogni cosa al suo posto. Per quanto si tratti di un atto asimmetrico, che oltrepassa la logica dello scambio per sposare quello del donare esclusivo e senza ricompensa, è forse il gesto più riequilibrante ed equilibrato che l’essere umano possa compiere.  

È una modalità trasformativa del Sé e dell’altro, una capacità che consente di attraversare trasversalmente gli ostacoli imposti dalla realtà intrapsichica per approdare ad una nuova dimensione in cui si scende a patti con la propria volontà di amare, scegliendo di ricostruirla anche dopo la ferita.

È la capacità di tramutare i frammenti di un dolore insanabile, che ha devastato e depredato, in un’occasione di rinascita. Nel tentativo di stemperare un dolore altrimenti destinato alla siderazione, al silenzio glaciale del per sempre, del mai più, che non concedono né ottengono nulla.

Perdonare significa raccogliere i pezzi di un Sé ferito, umiliato e frastornato dall’offesa, mettersi di nuovo in marcia verso un cammino consapevole, sciogliere  legami libidici con una colpa arida e senza frutto che il perdono trasforma in terreno fertile, pronto per accogliere una nuova dimensione relazionale.

Naturalmente il perdono non rappresenta una sorta di garanzia che dobbiamo essere pronti a concedere sempre e comunque: esistono rapporti che non possono essere ripristinati, perché il conflitto che li riguarda non è negoziabile, né sanabile per il bene stesse delle parti coinvolte. Sono quei rapporti tossici e asimmetrici, la cui perpetrazione rappresenta soltanto l’espressione di una condotta masochistica o autodistruttiva. Ma anche in questi casi, pur dopo la cesura necessaria, il perdono del Sé e dell’altro si mostra il lasciapassare di un cammino di rinascita, indispensabile per interrompere il legame con un passato persecutorio che rischierebbe di contaminare anche il nostro futuro.

Per questo il perdono è un divenire, continuo e circolare, contro la linearità cieca e senza fondo della vendetta, che nel proprio espandersi senza direzione, incontra anche il suo limite più grande.

È un atto “creativo”, in quanto decide di generare una dimensione relazionale altrimenti impossibile, e rielaborativo, perché in grado di riordinare quei frammenti scissi del Sé che non sanno trovare una collocazione sintetica, e che spesso vengono proiettati nell’altro alla ricerca di un possibile controllo funzionale.

Perdonare è un intento di generatività e continuazione. È garanzia di liberazione dalle catene dell’odio.

È l’abbandono della vendetta per lasciare che la colpa subita ci attraversi senza distruggerci, ma solo per ricostruirci, ancora migliori di prima.

È, in definitiva, un omaggio alla vita. Inteso nel senso più nobile ed elevato del te

 Dott.ssa M.Rebecca Farsi

Vincitrice del Contest “WeWantYou”

per il mese di Novembre 2021

Per Approfondire 

Lumera. D. (2017), La cura del perdono, una nuova via alla felicità, Mondadori, Milano

Recalcati, M. (2011), Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa,  Mondadori, Milano;

Worthington, E. ( 2003),  L’arte del perdono, Mondadori, Milano.

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