L’Io migrante. Viaggi e miraggi di un nomade “forzato”

E chissà quanto ho viaggiato
quante facce sono stato
Quante volte ho chiuso gli occhi
quanta polvere ho mangiato
Quante volte ho chiesto scusa
quante volte ho perdonato
Come sabbia dentro al vetro
come vento sul vestito
E il treno sta partendo
e non è ancora partito

(“La testa nel secchio” F. De Gregori)

Il poeta francese Michel Butor, scomparso nel 2016, interrogato sul tema della migrazione, rispose “La nozione di immigrato è un errore. L’immigrato è qualcuno che fa un viaggio regolare da un punto a un altro, come l’uccello migratore, appunto. Qui invece è gente che fugge dai massacri. Né sono rifugiati, perché un rifugio lo stanno cercando. Bisogna cercare una parola che non menta. Una volta che la si sarà trovata, si sarà già fatto un grande progresso”.

Se quanto scritto sopra appare come una riflessione sensata che ci consegna anche un arduo compito “semantico”, appare altrettanto innegabile come ciò interessi soltanto a chi, per professione, può e deve occuparsi del migrante, della sua condizione d’urgenza e delle conseguenze dell’esperienza migratoria. E’ vero, come diceva qualcuno, che “conoscere aiuta a capire”, ma non si potrà mai capire abbastanza se non si è disposti a conoscere, a porsi una domanda centrale: “Chi è il migrante”?

Pur rispettando, nella pratica clinica, concetti come “soggettività” e “competenza culturale” (termini che facilitano una certa comprensione dei vissuti identitari di queste PERSONE), la loro presenza sul territorio ospitante si configura come un “immediato problema da risolvere”. Questa premessa rimanda chiaramente alla condizione socio-giuridica del migrante che, come suggeriscono Colic-Peisker e Tilbury, in quanto “forzato” appare come un “sopravvissuto” o come direbbe Watters “vittima ingiusta”. Cosa significa ciò? Lo spiega chiaramente Renos K. Papadopulos, quando nel 2006 afferma che “ diventare un rifugiato sembra essere in prima istanza un fenomeno innanzitutto ed essenzialmente giuridico-legale che ha poi implicazioni psicologiche”. Seguendo ed analizzando quest’iter alcuni studiosi come Rossi e Mancini, hanno osservato come vi siano diversi fattori che paiono “spogliare” il migrante forzato della sua soggettività culturale: un “secondo dramma” considerando come lo stato di occupazione del paese d’origine, assieme alle barbarie tristemente note, mirino proprio a deumanizzare il cittadino e, di conseguenza, l’uomo.

“Signori questa è la prassi e va sì rispettata”… Stando cosi le cose, quali sono dunque questi fattori che contribuiscono ad un tale processo? In primo luogo, il migrante non sempre viene riconosciuto come “forzato”; pur non essendo tutti spinti alla migrazione necessaria, sarebbe utile interrogarsi maggiormente su questo aggettivo. Questi non viene identificato come individuo, né tanto meno come una persona che porta con se uno specifico background culturale, ma come semplice categoria legale- il richiedente asilo o rifugiato – confondendo l’identità con il bisogno o peggio, riducendo il tutto… al bisogno. Le conseguenze di ciò sono semplici da immaginare: una sequelae traumatica che precede la perdita di risorse identitarie, sociali e materiali. In secondo luogo tempistiche diametralmente opposte: una proverbiale urgenza nel collocare geograficamente il migrante (in una struttura predisposta all’accoglienza) che collide con la lentissima burocrazia che assegna il riconoscimento di protezione internazionale alla persona. Dovrebbe essere più chiaro ora, ammesso che sia davvero reale la volontà di comprendere, come in questa situazione il migrante si trovi in una condizione particolarissima: quella del “non luogo” e del “non tempo”, un’ attesa infinita in un luogo che non sarà mai “casa”. Come suggerisce lo stesso Sironi (1999), la deculturalizzazione e depoliticizzazione dei migranti forzati rischia di privarli del riconoscimento di quei fattori culturali, storici e politici che, solitamente, hanno motivato la loro migrazione. La complessità e le tempistiche ristrette con cui, sovente, si è costretti ad operare, portano a due tipologie di migrante con cui “trattare”: se il migrante non viene considerato come “vittima passiva” e quindi debole e bisognoso d’aiuto, non potrà essere altro che un soggetto “resistente” che approfitta del canale d’asilo. Un paradosso teorico reso vivo dall’agire pratico quotidiano. “Bisogna avere più competenza” direbbe qualcuno… Riprendendo il concetto di competenza culturale, si potrebbe pensare che tale parola riguardi, semplicemente, uno studio più o meno approfondito di ciò che questa particolare utenza potrebbe volerci trasmettere, ma ciò oltre ad essere errato risulterebbe anche come una risposta davvero semplicistica per un argomento cosi ampio e complesso. Questo concetto riflette, infatti, l’impegno reciproco tanto del professionista quanto del migrante, riconoscendo a quest’ultimo un sapere che è proprio, in quanto originale e personale. Il clinico identificherà invece, attraverso i suoi studi e per mezzo dell’esperienza diretta, un fattore di consapevolezza culturale che richiama maggiormente aspetti cognitivi ed un fattore di sensibilità che rispecchia quelli più affettivi; questi orienteranno il professionista aiutandolo gradualmente a “fidarsi” del paziente. Sebbene sul territorio italiano vi siano molte strutture, tra cooperative sociali e centri d’accoglienza straordinaria, che hanno portato a risultati impensabili nonostante le intuibili difficoltà, siamo forse ancora lontani dalla reale comprensione del fenomeno migratorio e dei protagonisti dello stesso. Comprendere come l’evento della migrazione sia un fatto tanto drammatico quanto reale, un qualcosa che non si può negare malgrado ci spaventi molto, significa vivere pienamente la storia del nostro tempo. La migrazione appartiene ai più diversi popoli, è stata causata dai motivi più svariati, ma quando intere popolazioni sono costrette ad abbandonare la propria terra, le proprie radici, per intraprendere un viaggio di “disperata speranza”, dovremmo porci una domanda che suona come un monito: “perché”?

I migranti sono eroi perché fanno a meno delle certezze ingannevoli legate all’appartenenza ad un posto fisico.

A volte fanno paura, perché agli occhi di coloro che si trovano “a casa” sono la prova

che il loro senso di appartenenza ad un luogo o di possesso può essere illusorio.

(Marc Augé)

Dott. Gianluca Rossini

Psicologo

Riceve su appuntamento a Frosinone

rossini.gianluca@outlook.it

Per Approfondire

Andrea Davolo, Tiziana Mancini (2017) “L’intervento psicologico con i migranti. Una prospettiva sistemico-dialogica”

Renos K. Papadopulos (2006) “L’assistenza terapeutica ai rifugiati. Nessun luogo è come casa propria”

Tobie Nathan, S. Inglese (1996) ”Principi di etnopsiconalisi”

Laura Zanfrini (2016) “Introduzione alla sociologia delle migrazioni”

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