A Natale Puoi?
La psicologia dietro le grandi abbuffate

Natale: momento unico di celebrazione in cui coccolarsi con la vicinanza della famiglia e le grandi preparazioni culinarie. È tempo di affetto, di regali e trasgressioni alimentari.

Il cibo assume un ruolo centrale nella nostra tradizione tanto che, durante le feste, le nostre tavole vengono imbandite di prelibatezze anche molto caloriche alle quali è impossibile- oserei dire “per tradizione”- sottrarsi.

Cosa ci spinge a mangiare fin oltre la fame, il benessere del nostro intestino, bypassando quella fastidiosa sensazione di pienezza?

Episodi di binge eating (per maggiori approfondimenti si rimanda all’articolo “Il disturbo da alimentazione incontrollata- Abbuffate di emotività”), ovvero di abbuffate alimentari, divengono una trasgressione giustificata da un fenomeno culturale che coinvolge dal nord al sud la nostra penisola e che è possibile osservare sui social, ad oggi pieni di foto di portate megalattiche di cibo e facce esauste associate a commenti come “sto rotolando”.

A Natale puoi fare quello che non puoi fare mai” canticchiava una famosa pubblicità, ricordandoci come la tradizione culturale ci abiliti alla trasgressione alimentare. Le abbuffate, seppur socialmente accettabili, possono non essere scevre dalle conseguenze emotive che le accompagnano, principalmente sensi di colpa e vergogna. La trasgressione alimentare, infatti, può essere conseguentemente vissuta come un grande errore innescando in primis il processo psicologico del senso di colpa: la coscienza punisce per aver ceduto alla pulsione di trasgredire il proprio codice alimentare, mangiare e ingerire quantità elevate di calorie.

Il senso di colpa (per maggiori approfondimenti si rimanda all’articolo “il senso di colpa- Schiacciati da se stessi”) viene definito, in questo caso, “alimentare” perché percepito in seguito a condotte alimentari etichettate come pericolose per il proprio benessere e la propria forma fisica. Esso genera, però, un vissuto di fallimento che può facilmente allargarsi ad ogni aspetto della propria personalità determinando una sensazione generica di frustrazione ed inadeguatezza. Frasi come“Non avrei dovuto mangiare tutti quei dolci, sono un buono a nulla/non valgo niente/mi merito di essere in sovrappeso” sfiorano la mente di molti in seguito alle abbuffate natalizie e condizionano notevolmente l’umore in quei giorni, soprattutto quando non possono essere esplicitate.

Spinti dal senso di colpa, complice il periodo dell’anno (ovvero la fase di conclusione, di  transizione e cambiamento per eccellenza), programmiamo periodi di restrizione alimentare fatti di privazioni di gusto e di componenti nutritive, andando incontro al progetto di un pericoloso disequilibrio alimentare. Da gennaio in poi, creiamo con facilità “diete fai da te” attraverso cui abbiamo la sensazione di ristabilire un controllo sui nostri impulsi alimentari per mezzo delle limitazioni che ci imponiamo; consumiamo i pasti come se fosse un reato, evitando  di comprare o anche solo di guardare quei cibi che consideriamo calorici, concedendoci invece solo insalatone per riempire un vuoto interiore, purtroppo non solo fisico. Seguendo queste condotte alimentari è alto il rischio di non ingerire tutte le componenti nutritive necessarie al proprio benessere e anche di cadere in episodi di binge eating durante le “pause dalla dieta” quando un supplì diviene cinque supplì o un pezzo di torta, metà torta. Recenti studi psicologici dimostrano come le persone che si definiscono perennemente a dieta riportino maggiormente sintomi ansiosi e depressivi ed una più elevata tendenza al binge eating.

È bene specificare che in questa sede facciamo riferimento principalmente a quei vissuti di insoddisfazione e inadeguatezza che possono generare processi disfunzionali anche nell’alimentazione e che nascono dal desiderio intrinseco di raggiungere una forma fisica perfetta o, più precisamente, dall’innato bisogno di essere e sentirsi perfetti.

È diffuso il desiderio di sentirsi all’altezza di quel che cultura e società impongono che ha origine dall’infanzia nel bisogno irrefrenabile di piacere agli altri. Le insicurezze patologiche (per maggiori approfondimenti si rimanda all’articolo “L’insicurezza patologica- Ciò che non amo di me”) spingono a dare importanza al giudizio esterno e affidare il proprio valore ad esso. Quando le disapprovazioni esterne rappresentano un profondo fallimento, si sceglie di adottare comportamenti maggiormente apprezzabili all’esterno, come il mantenere una forma fisica perfetta o dedicare agli altri attenzioni e cure eccessive, per ricevere dall’altro un’immagine di sé positiva, valida e ineguagliabile.

Il processo prevede un tentativo di costruzione di sicurezze ed autostima personale attraverso l’adesione alle scelte che si pensa possano essere le  più giuste socialmente. La ricerca di perfezione nasce, dunque, da una profonda insicurezza che si pensa di colmare attraverso tentativi di omologazione, mostrando sempre agli altri faticosamente la parte migliore di sé, negando le debolezze.

È qui che la psicoterapia può essere d’aiuto. Essa non è un viaggio verso la perfezione, al contrario, è un duro combattimento verso l’integrazione e l’accettazione delle nostre parti imperfette perché le imperfezioni sono la “normalità”. È un percorso per riuscire a dimostrare a se stessi di essere unici, validi anche con le proprie debolezze, per riconoscersi la possibilità di fallire, di non essere all’altezza in ogni situazione. Sapersi mettere in discussione, ma essere sicuri delle proprie scelte indipendentemente da ciò che accade intorno. Tutto ciò, soprattutto per alcune personalità “al limite”, rappresenta un’impresa, ma una grande conquista raggiungibile.

Semel in anno licet insanire” dicevano i latini, una volta l’anno è concesso fare pazzie. Accettando la possibilità di sbagliare abbandoniamo il desiderio di rincorrere standard estetici inarrivabili ed il bisogno di dimostrare agli altri di essere perfetti.  Proviamo, una volta all’anno oppure semplicemente ogni tanto, a scegliere di fare qualcosa solo perché ci fa stare bene, come mangiare quel dolce di troppo, senza accedere al senso di colpa.

Si perde la perfezione di un bicchiere di latte bianco con una sola goccia di caffè. Noi siamo quel bicchiere di latte: ciò che ci dà colore, aspetto e gusto è quella piccola imperfezione più di ogni altra cosa. Non è una colpa, è senza dubbio un valore.

Dott.ssa Emanuela Gamba

Riceve su appuntamento a  Roma e Formia (LT)
(+39) 389 2404480

emanuela.gamba@libero.it

Per approfondire:

Klein M., Meneguz G., “Aggressività, angoscia, senso di colpa”, Ed Bollate Boringhieri, 2012

Dickens C.- “Il canto di Natale”,  Giunti Editore , 2012

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