“Room”
Il trauma e la resilienza

Room – 2015 Telefilm Canada Film4, Irish Film Board, Ontario Media Development Corporation, Element Pictures/No Trace Camping, Duperele Films
Image courtesy of Universal Pictures

Jack è un bambino, un bambino che vive da solo con Ma’, in una casa in cui esistono la lampada, il lavandino e il lucernaio, i suoi amici. La casa di Jack in realtà è la sua prigione, dove è nato, a seguito delle violenze sessuali subite da sua madre, una ragazza di diciassette anni rapita da uno psicopatico. Quelle quattro anguste mura sono tutto il suo mondo. Quello reale di mondo è visibile soltanto dalle feritoie di una piccola finestra. La madre di Jack gli ha insegnato ad amare quella casa, a vederla come un luogo accogliente, in cui poter vivere le gioie del loro rapporto, unica condizione è quella di nascondersi dentro l’armadio quando Old Nick si infila nel letto di Ma’ ogni notte.

Eppure Ma’ racconta a Jack anche del mondo di fuori, quel mondo a cui sono stati sottratti entrambi dalla follia di un mostro e al quale riusciranno a fare ritorno, ad ogni costo, grazie all’infinito coraggio di un bambino che non ha mai visto la luce del sole.

Lenny Abrahamson ci porta all’interno del bunker attraverso gli occhi innocenti e incantati di Jack, a cui quei pochi metri quadri e quegli oggetti familiari appaiono come un mondo meraviglioso, illuminato dall’amore di sua madre, che con la sua infinita forza e resilienza riesce a proteggerlo dalla violenza della condizione in cui vivono, senza mai abbandonare la speranza di fuggire. Tratto dal romanzo di Emma Donoghue, ispirato a storie reali spaventose ed eclatanti come quella di Natascha Kampush, segregata per otto anni e mezzo in un bunker, la storia di Jack e Ma’ rappresenta un esempio magistrale degli effetti subiti dalle vittime di traumi estremi, come il rapimento e la violenza fisica e psicologica a cui sono sottoposte le vittime. Crocq, in seguito a degli studi compiuti su vittime di sequestro, ha individuato 4 fasi: 1) la fase della cattura, caratterizzata da stress immediato, tensione emotiva, paura, incredulità, fenomeni neurovegetativi e motori; 2) la fase del sequestro suddivisa a sua volta in tre sub-fasi: diniego, speranza, perdita di speranza; 3) fase della liberazione ovvero il ritrovamento del proprio arbitrio, identità, personalità e tutto ciò che faceva parte della quotidianità della vittima prima del rapimento; 4) la fase delle conseguenze a livello psicologico, caratterizzata da una sintomatologia grave o lieve a seconda dei casi. 

In uno studio condotto da Daniela Degortes, Giovanni Colombo, Paolo Santonastaso e Angela Favaro, su 24 persone vittime di sequestro, col passare del tempo i vissuti di paura, sconcerto, rabbia e disperazione vengono sostituiti dalla rassegnazione e dall’ “adattamento” alla condizione di prigioniero. La testimonianza di alcune vittime: “All’inizio ho provato uno sconcerto ed un terrore assoluti, ero disperato, avevo paura di morire, poi subentra una sorta di serenità, pensi che non ti faranno del male, che finirà tutto presto”; e ancora: “i primi giorni piangevo, poi dopo il primo mese non mi importava come sarebbe andata a finire, cercavo solo di sopravvivere e di resistere alla scomodità fisica…”; “…col passare del tempo diventa una cosa normale, ti rassegni, anche se ti minacciano non hai paura (…)Durante la prigionia si rimuove ogni forma di critica, cadono i ruoli, non li vedi come banditi, ma come persone. Io avevo dato ad ognuno di loro un nomignolo. Appena liberato non riuscivo a camminare, non avevo equilibrio. Mi lavavo in continuazione. Era tutto diverso per me, era come se fossi tornato da un altro posto, come se mi fossi appena svegliato. A volte mi capita di non riconoscermi subito”. Nel film di Abrahamson succede esattamente la stessa cosa. Ma oltre a questi meccanismi psicologici estremi, necessari a garantire la sopravvivenza psichica della persona, è fondamentale anche la resilienza.

Il concetto di resilienza (resiliency) è stato sviluppato negli Stati Uniti. 
Con essa si intende la capacità di elaborare i vissuti e le esperienze traumatiche attraverso una rielaborazione creativa, che non nega l’evento o il trauma, ma lo limita, lo circoscrive, e consente di investire creativamente nelle proprie risorse.
Le risorse interne acquisiste fino al momento del trauma permettono di reagire ad esso: in modo particolare, risultano determinanti il possesso di un attaccamento sicuro ad una figura di riferimento. Colui che non è riuscito a raggiungere tali acquisizioni fino a quel momento, potrà conseguirli successivamente, pur con maggiore lentezza, a condizione che l’ambiente circostante disponga intorno a lui qualche tutore di resilienza.



Dott.ssa Valeria Colasanti

Riceve su appuntamento a Roma
(+39) 348 8197748

colasantivalaria@gmail.com

Per approfondire:

– Speranza e resilienza: cinque strategie psicoterapeutiche di Milton H. Erickson, di Dan Short e Consuelo Casula, Franco Angeli – 2006

– Il sequestro di persona come evento traumatico: interviste cliniche ad un gruppo di vittime e revisione della letteratura, Rivista di psichiatria, 2003, 38, 2

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