La psicologia del ritratto. Il rapporto tra arte e identità
“”Preferisco dipingere gli occhi degli uomini che le cattedrali, perché negli occhi degli uomini c’è qualcosa che non c’è nelle cattedrali, per quanto maestose e imponenti siano.” Van Gogh scriveva queste parole in una lettera al fratello Theo. Volendo esplorare il rapporto tra psicologia e arte del ritratto, Van Gogh è uno degli autori più interessanti da prendere in considerazione. Nel corso della sua breve vita dipinse quarantatré autoritratti, tra i quali alcuni dei più celebri sono l’autoritratto del 1889 su sfondo blu, e l’autoritratto con orecchio bendato del 1889.
Secondo Stefano Ferrari, professore di psicologia dell’arte presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, il ritratto e l’autoritratto in particolare, hanno a che fare con la rappresentazione che diamo di noi stessi al mondo, il processo attraverso il quale diamo un volto alla nostra identità.
Il problema, secondo Ferrari, è che la nostra identità spesso non coincide con la nostra immagine, ma necessariamente deve essere rappresentata e presentata agli altri attraverso di essa. Dobbiamo offrire un simbolo mediato della nostra essenza. Un processo spesso tormentato che ha a che fare con la formazione dell’immagine interna, che va oltre la propriocezione, la consapevolezza del corpo e del nostro Sé. Secondo l’Autore l’immagine interna sintetizza e racchiude modelli e ideali del Sé, sia interni che esterni. L’autoritratto nello specifico può essere visto come espressione del bisogno di rappresentare se stesso nelle proprie molteplici versioni, di darvi visibilità, maschere che risponderebbero al desiderio definito da Freud di “vivere una molteplicità di vite”. Attraverso l’autoritratto l’artista può offrire all’osservatore diverse versioni di sé, travestendosi e modificando la propria identità, o può mettere in scena il conflitto, il dubbio e l’angoscia riguardo la propria esistenza, tipica degli artisti contemporanei, Van Gogh fra tutti. Per dipingere il proprio ritratto gli artisti devono confrontarsi con lo specchio, con il proprio doppio, ma soprattutto, facendo riferimento a Winnicott, con il rispecchiamento di sé nel volto dell’altro. Altro inteso come madre, la quale deve essere in grado di guardare il bambino e scorgere in esso una persona intera, rimandando all’infante questa immagine, contribuendo così alla costruzione del suo Sé. Infatti il rapporto con l’altro è fondamentale per la formazione della nostra identità. “Come il bimbo si vede (o non si vede) rispecchiato nel volto materno, così noi continuiamo a vederci attraverso gli occhi degli altri, o meglio attraverso l’immagine che immaginiamo che gli altri abbiano o debbano avere di noi.” (Ferrari, 2007) Secondo l’Autore nel rapporto con il ritratto e l’autoritratto entra in gioco il rapporto con la morte e la paura della morte sempre presente nell’uomo. L’idea di un doppio che possa sopravvivere alla caducità del corpo mortale aiuterebbe a superare la paura della fine. Per realizzare un autoritratto l’artista deve mettere in atto un meccanismo di difesa basato sullo sdoppiamento tra l’io soggetto e l’io oggetto, che viene guardato dall’esterno, riuscendo a guardare la propria immagine come quella di un estraneo. “Deve operare una sorta di (…) regressione controllata allo stadio dell’inconsapevolezza.” Ma questo processo, secondo Ferrari, avviene nella contemporanea consapevolezza dell’Io come unità, un Io che deve essere abbastanza maturo da tollerare questo momentaneo sdoppiamento.
Nel 2001 il neuroscienziato R.C. Miall dell’università di Oxford ha studiato il processo che permette ad un artista di trasformare le immagini visive del modello che intende ritrarre in un’immagine sulla tela. Per farlo hanno misurato i movimenti degli occhi e delle mani dell’artista al lavoro, paragonati con quelli compiuti nelle azioni quotidiane. Il tempo di osservazione dei dettagli dell’oggetto dipinto avevano il doppio della durata delle osservazioni compiute in un momento di riposo. Anche la coordinazione oculo manuale di un artista esperto è risultata differente e più prolungata nel tempo di un artista alle prime armi.
Per poter guardare se stessi è fondamentale poter guardare l’altro da sé, e attraverso il rapporto con l’altro noi formiamo un’immagine di noi stessi, che poi restituiamo al mondo. Negli autoritratti di Van Gogh possiamo osservare, forse, lo sforzo di oggettivare e di “fissare” sulla tela il tentativo combattuto, e mai del tutto compito, di dare una forma stabile al proprio Sé, in un continuo mutamento di percezioni ed emozioni, alla ricerca di una definizione della propria identità.
“”Preferisco dipingere gli occhi degli uomini che le cattedrali, perché negli occhi degli uomini c’è qualcosa che non c’è nelle cattedrali, per quanto maestose e imponenti siano.” Van Gogh scriveva queste parole in una lettera al fratello Theo. Volendo esplorare il rapporto tra psicologia e arte del ritratto, Van Gogh è uno degli autori più interessanti da prendere in considerazione. Nel corso della sua breve vita dipinse quarantatré autoritratti, tra i quali alcuni dei più celebri sono l’autoritratto del 1889 su sfondo blu, e l’autoritratto con orecchio bendato del 1889.
Secondo Stefano Ferrari, professore di psicologia dell’arte presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, il ritratto e l’autoritratto in particolare, hanno a che fare con la rappresentazione che diamo di noi stessi al mondo, il processo attraverso il quale diamo un volto alla nostra identità.
Dott.ssa Valeria Colasanti
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Per Approfondire:
Stefano Ferrari, La psicologia del ritratto nell’arte e nella letteratura – Laterza, 1998