Dipendenze Affettive. Nè con te, nè senza di te
Quando si assaggia il caffè la prima volta, in genere, non è amore a prima vista. Il suo aroma forte, il suo sapore amaro non ci convincono, ci fanno storcere il naso. Quando sperimentiamo però gli effetti della caffeina tutto cambia. La caffeina è l’alcaloide presente nel caffè. La molecola della caffeina agisce provocando un aumento dei livelli di adrenalina e noradrenalina nell’organismo. Attraverso queste, ha un effetto tonico sulla funzionalità cardiaca e nervosa, uneffetto stimolatorio sulla secrezione gastrica e su quella biliare, un effetto lipolitico ed un effetto anoressizzante. In parole povere: fornisce energie, facilita la digestione, favorisce il dimagrimento e diminuisce l’appetito. Gli effetti della caffeina la rendono quindi una sostanza assai desiderabile, che è entrata a far parte delle abitudini quotidiane di moltissime persone. Passiamo sopra ad aroma e sapore, che, anzi, diventano quasi gradevoli, e, nel primo periodo siamo inebriati dai piacevolissimi effetti che hanno sul nostro organismo. Con il passare del tempo, gli effetti sembrano meno potenti del solito ed un solo caffè non basta più: ce ne servono due. E così via. Finchè il nostro organismo non ci dice che basta, dobbiamo trovare un equilibrio ed una regolarità.
È successo quello che in farmacologia è definito come assuefazione, ovvero un complesso di cambiamenti fisiologici che si associano all’uso di alcune sostanze, come droghe o farmaci. Le condizioni specifiche associate all’abuso di queste sostanze sono la dipendenza, la situazione in cui l’uso di una droga acquista priorità preminente o assoluta nella scala dei bisogni personali, e la tolleranza, la condizione fisiologica per cui l’organismo sopporta a dosi gradualmente più elevate la tossicità delle sostanze. Una volta stabilitasi una condizione di tolleranza, la medesima dose di sostanza produce effetti progressivamente ridotti. È detto assuefazione il degradare degli effetti, soprattutto psichici, della medesima dose, che rende necessario aumentare la dose per produrre lo stesso effetto.
Nelle relazioni d’amore tra esseri umani (di qualunque genere essi siano, questo è un articolo gender-free – per un approfondimento si rimanda all’articolo “Il gender – Questo frainteso” -) succede qualcosa di simile.
Ci si incontra, estranei, con “aromi e sapori” non familiari, ci si inizia a conoscere, ci si interessa reciprocamente, ci si continua a conoscere, ci si continua ad interessare reciprocamente (stiamo ponendo questo caso qua, presupposto dell’eventuale nascita di una relazione amorosa), ci si continua a conoscere, ci si comincia a pensare anche quando non si è insieme, ci si comincia a desiderare anche quando non si è insieme, si cerca di colmare queste mancanze. È più o meno così l’iter di una relazione tra due persone che si innamorano.
L’innamoramento è proprio questo: un “meccanismo” che scatta nei due protagonisti, che iniziano a pensarsi reciprocamente, a desiderarsi anche quando non sono insieme, ad entrare quindi l’uno nella vita dell’altro. E l’innamoramento, un po’ come la caffeina, ha degli effetti grandiosi sul nostro organismo: siamo pieni di energie, abbiamo meno appetito (ergo: dimagriamo), siamo più allegri, dormiamo meno (“farfalle nello stomaco” ed “occhiali rosa” appartengono a questa fase qua). Insomma (per smontare il romanticismo), ci troviamo in una fase di “ordinario trionfo maniacale”, così come definita dalla letteratura. Del partner (che nel frattempo diventa tale, poiché ci si relazione con l*i con regolarità) tenderemo a scindere dicotomicamente aspetti “buoni” ed aspetti “cattivi” (utilizzando una terminologia cara a Melanie Klein; per un approfondimento, si rimanda all’articolo “Amore e odio – Bambino, oggetto e spinta alla separazione”), sovrastimando i pregi, ciò che di l*i ci piace. Non significa che non vediamo i suoi difetti, gli aspetti negativi; semplicemente, in questa fase vengono messi in secondo piano.
Nella fase successiva a quella dell’innamoramento, che fisiologicamente non può durare in eterno altrimenti il nostro organismo deperirebbe, avviene un’integrazione di oggetti buoni ed oggetti cattivi del partner. In parole povere: l* vediamo in tre dimensioni, per quell* che è veramente. Ed è in quel momento che entra in campo la razionalità, fino a questo punto rimasta in secondo piano, e i due partner si trovano di fronte ad una scelta: l’immagine in 3D che vediamo ci piace, ci interessa ancora e vale la pena di provare a “sperimentarla” nella quotidianità (che nel frattempo si è necessariamente e fisiologicamente ristabilita) oppure no? È qui che vi è un bivio tra chiudere o aprire: è qui che si passa da innamoramento ad amore (o conclusione della relazione).
Ma di certo non sarà un articolo di psicologia a dare una lettura illuminante di un “fenomeno”, quello dell’amore, che ha ispirato opere artistiche, imprese superumane ed è stato spinta propulsiva e vitale dai tempi dei tempi. Lo scopo dell’articolo non è quello di trattare innamoramento ed amore nelle loro forme canoniche. Ma quello di esplorare insieme al lettore interessato i meccanismi che sottostanno le relazioni patologiche (per un approfondimento si rimanda all’articolo “Relazioni patologiche e doppi legami – Di relazioni ci si ammala, di relazioni si guarisce”), quelle tossiche (un po’ come le sostanze di cui si parlava prima): le Dipendenze Affettive.
Fenichel definisce le personalità amore-dipendenti per indicare coloro che necessitano dell’amore come altri necessitano del cibo (per un approfondimento si rimanda all’articolo “Dipendenza da cibo – Il legame tra nutrimento ed emozione”), della droga, dei videogiochi/tv (per un approfondimento si rimanda agli articoli: “Dipendenza da serie tv – Le emozioni tele-amiche” e “Internet addiction – Un’arma a doppio taglio”), del sesso, del gioco d’azzardo patologico. Nella dipendenza affettiva si verificano gli stessi meccanismi delle altre dipendenze, eccetto per l’oggetto che è appunto un’altra persona.
Se è normale che nella fase dell’innamoramento ci sia un certo grado di dipendenza, il desiderio di fondersi con l’altro, ma che questo desiderio fusionale tenda a scemare con lo stabilizzarsi della relazione, nella dipendenza affettiva invece, il desiderio fusionale perdura inalterato nel tempo. Il dipendente dedica senza riserve tutto sé stesso all’altro, al fine di perseguire esclusivamente il suo benessere e non anche il proprio, come dovrebbe essere in una relazione “sana”.
I dipendenti affettivi vedono nell’amore la risoluzione dei propri problemi, che spesso hanno origini profonde legate a vuoti affettivi durante l’infanzia (per un approfondimento si rimanda all’articolo “La dipendenza – Vuoti di vita da colmare”). Il partner assume quindi il ruolo di un salvatore, diventa lo scopo della propria esistenza, la sua assenza anche temporanea dà la sensazione di non esistere più. Una persona con una dipendenza affettiva non riesce a cogliere ed a beneficiare dell’amore nella sua profondità e reciprocità. A causa della paura dell’abbandono, della separazione, della solitudine, tende a negare i propri desideri e bisogni, si maschera replicando copioni passati, gli stessi che hanno ostacolato lo sviluppo della propria personalità. Proprio per questi motivi spesso questo tipo di personalità dipendente sceglie partner “problematici”, portatori a loro volta di altri tipi di dipendenza (droghe, alcol, gioco d’azzardo, sesso). In linea con la negazione dei propri bisogni, ci si deve dedicare all’altro, che necessita di essere aiutato.
Talvolta la dipendenza si fonda invece sul rifiuto, sulla negazione del sè, sul dolore implicito nelle difficoltà. Mara Selvini Palazzoli sostiene che, un po’ come nell’antica Grecia, queste persone peccano di “Hybris”, di tracotanza, della presunzione di riuscire prima o poi a farsi amare da chi proprio non vuole saperne di amarci o di amarci nel modo in cui noi pretendiamo. La persona con una dipendenza affettiva è in realtà lei stessa incapace di amare, poiché non ha mai potuto sperimentare la sensazione di essere l’oggetto d’amore dei propri genitori nella propria infanzia. Il tentativo disperato di trovare una persona da amare fino ad annullarsi, non è altro che una profonda e disperata negazione di quel buco così grande e precocemente stabilitosi, che ha dentro.
La posizione della persona dipendente è riassumibile con le parole del poeta latino Ovidio “Non posso stare nè con tè, nè senza di tè”. “Non posso stare con tè” per il dolore che si prova in seguito alle umiliazioni, maltrattamenti, tradimenti ecc. Ma “Non posso stare senza di tè” perchè è indicibile la paura e l’angoscia che si prova al solo pensiero di perdere la persona amata. E dover finalmente avere a che fare con il proprio senso di vuoto.
Dott.ssa Giulia Radi
Riceve su appuntamento a Perugia
Approfondimenti:
Film: Samuel J. Amami se hai il coraggio (2003)
Fenichel O. (1945) Trattato di psicanalisi delle nevrosi e psicosi. Casa Editrice Astrolabio
Klein M. (1952) Il mondo interno del bambino. Biblioteca Bollati Boringhieri
Lis A., Mazzeschi C., Salcuni S. (2005) Modelli d’intervento nelle relazioni familiari. Carocci Editore
Selvini Palazzoli M. (1998) Ragazze anoressiche e bulimiche: la terapia familiare. Raffaello Cortina Editore