Il colloquio con l’adolescente
Chi vuole andare in terapia?

“Dottoressa, la chiamo per mio figlio. Lui non vuole parlare con uno psicologo, ma deve farlo.”

Capitano spesso telefonate del genere, in cui uno dei due genitori, allarmato per la situazione psicologica ed emotiva del proprio figlio o figlia, mi contatta per richiedere un appuntamento, che è sempre rappresentato come urgente.

Nel colloquio con l’adolescente il primo scoglio da superare è proprio rintracciare la domanda reale di aiuto, che si nasconde tra le pieghe della richiesta apparente, in genere accompagnata da grande ansia e agitazione da parte del genitore che contatta il professionista. Nella mia esperienza clinica cerco sempre, già telefonicamente, un primo contatto con il giovane o la giovane. Dall’altro capo del telefono si può trovare qualcuno che per ragioni di età o di maturità non è ancora in grado di contattare autonomamente un professionista della salute mentale. In questi casi il genitore si fa portatore della richiesta e fa da tramite con il mondo esterno, svolgendo in modo adeguato una funzione di cura e tutela. In altri casi, al contrario, la richiesta è proprio del genitore ed ha come oggetto il figlio o figlia, che nella richiesta implicita deve essere in qualche modo “aggiustato”, fatto tornare come era prima, o fatto diventare come si vorrebbe che fosse. Quando la definizione dell’identità sessuale si affaccia nella vita dei propri figli, questa richiesta diviene ancora più esplicita.

Anni fa, in un colloquio, mi è capitato di accogliere una madre e una figlia quasi diciottenne. La richiesta esplicita riguardava una difficoltà di inserimento scolastico e una apparente “ansia sociale”. Durante il colloquio però la madre sollecitava la figlia, alquanto recalcitrante, a parlare del suo “reale problema”, ovvero il suo interesse per una compagna di scuola, che aveva iniziato a frequentare. La madre era convinta che l’interesse omosessuale della figlia fosse qualcosa di patologico che doveva essere “curato”. Trascorsi il resto del tempo a nostra disposizione a spiegare alla signora che non vi era nulla di patologico nell’omosessualità e che forse poteva essere di aiuto a lei un percorso di consulenza, per aiutarla a gestire la sua ansia e accogliere la figlia. Come mi aspettavo non la rividi più.

Altri casi sono meno eclatanti, ovvero la richiesta del genitore è apparentemente coerente. Vedere soffrire il proprio figlio adolescente e decidere di farlo aiutare è un desiderio adeguato al ruolo del genitore, ma spesso le emozioni e le transizioni proprie dell’adolescenza tendono ad essere “patologizzate “, viste come qualcosa appunto da curare anziché da accogliere.

Cambiare amicizie, cambiare abitudini, decidere di lasciare lo sport praticato fino a quel momento o abbandonare le lezioni di piano, possono essere segnali di crescita ed evoluzione, nel difficile compito di definizione della propria personalità che ogni adolescente si trova ad affrontare. Il dolore per la perdita delle certezze infantili, e la messa in discussione del prioprio ruolo nel mondo, e all’interno della famiglia, sono aspetti normativi inevitabili del lavoro di crisi e ridefinizione dell’adolescente.

Allora i ragazzi/e non hanno bisogno di aiuto? Certamente, come ognuno di noi, in molte fasi del ciclo vitale e non solo. Ma la sofferenza emotiva non va “aggiustata “ e cancellata grazie allo psicologo, che viene visto come una longa mano genitoriale. Le emozioni dell’adolescenza, spesso dirompenti e spaventose per un genitore, posso essere accolte e ascoltate. Portare un ragazzo o una ragazza dallo psicologo è un’occasione di ascolto e conoscenza, una possibilità di crescita personale, non un aggiustare quel bambino o bambina che ormai non corrisponde più ai desideri dei grandi che lo/la circondano.

L’importante è chiedere al ragazzo o ragazza in questione se desidera incontrare uno psicologo, e questo desiderio può emergente spontaneamente solo se la terapia non è proposta come una coercizione, un tentativo di essere portati a fare quello che vuole papà o mamma. “Sono venuto per fare contenta mamma” non può essere la motivazione per iniziare un percorso psicologico.

Secondo Senise, l’adolescente ha un approccio e un modo di chiedere aiuto particolari, diversi da quelli degli adulti, e torna quindi più utile una malleabilità del contesto.

Potremmo lasciare ai nostri figli la possibilità di incontrare uno psicologo o uno psicoterapeuta come opportunità, tra le tante che dei genitori responsivi e attenti gli posso dare per crescere e maturare e per tutelare il loro benessere. 

Dott.ssa Valeria Colasanti

Psicologa Psicoterapeuta a Roma

Per Approfondire

TELLESCHI, R., TORRE, G. (a cura di). (1997). Il primo colloquio con l’adolescente. Milano: Raffaello Cortina.

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