Il Falso Sé. Nei Disturbi dell’Alimentazione

Il Sé è un elemento innato che costituisce il nucleo centrale dell’individualità, l’unione di elementi che disegna il punto di contatto tra psiche e soma, grazie al quale il bambino può sviluppare capacità emotive, cognitive, relazionali, empatiche, creative e di adattamento nel contesto vitale in cui è inserito (Winnicott, 1968). Naturalmente tale processo  non può svolgersi in maniera del tutto autonoma: fatte salve le fasi maturative fisiologiche che hanno certamente il loro peso, nell’evoluzione del soggetto, a svolgere una funzione dominante nella nascita e nel potenziamento del Sé è il rapporto con la madre.

Sulla base di tali teoriche, l’oggetto materno si fa garante dell’assistenza fisica e psichica del bambino, favorendo, con la sua presenza stabile, lo sviluppo di aspetti come il senso di autonomia, di individualità e di continuità contro le angosce di disintegrazione che lo assediano nel momento in cui il piccolo realizza di costituire un nucleo esistenziale autonomo rispetto alla madre, e pertanto di dover esistere separatamente da lei.

Una madre sufficientemente buona – la c.d. madre ambiente– saprà far fronte alle necessità del bambino nelle varie fasi del suo sviluppo, garantendogli sicurezza, responsività, empatia, e soprattutto consentendogli di esprimere le sue potenzialità mediante un atteggiamento responsivo in grado di adattarsi alle stesse (Winnicott, 1970). Fornendogli esattamente ciò di cui ha bisogno, la madre agevolerà la costruzione di una sorta di percezione di onnipotenza, in base alla quale il bambino sarà convinto di aver necessità dell’oggetto, ma altresì di avere le capacità per crearlo, per reperirlo, per procurarselo. Tutto ciò perché lo ha chiesto, e la madre ha risposto attivamente al suo bisogno. Non solo: relazionandosi autonomamente all’ambiente esterno il bambino avrà possibilità di creare un collegamento emotivo tra la propria spontaneità e l’ambiente che lo circonda, creando dei simboli attraverso i quali rappresentare quelle pulsioni interne che altrimenti resterebbero senza forma. Inespresse, e dunque incomprensibili.

Sono queste le basi della costruzione di una solida autostima, oltre che di un buon introietto relazionale materno.

Ma se la madre, anziché rispondere ai bisogni individuali del figlio, ne anticipa l’esistenza, condizionandoli fin quasi a determinarne la natura e l’entità, ecco che la madre non è più un’ausiliatrice del bambino, non è un sostegno e un appoggio alla scoperta del Sé, ma diviene la padrona stessa del Sé, colei che ne stabilisce i ritmi, le dimensioni, le caratteristiche. È la madre a decidere ciò che al bambino servirà o ciò che lui le chiederà, è sempre lei a decretare i suoi ritmi quotidiani, da quelli fisiologici a quelli emotivi. Il bambino si trova quindi depositario di una serie di “bisogni imposti” che non percepisce come propri, ma ai quali si rassegna a sottostare con acquiescenza per mantenere la vicinanza affettiva con l’oggetto materno.

La mancanza di autonomia e di consapevolezza del Sé che ne consegue renderà il bambino un mero prolungamento della madre, tanto che egli non riuscirà a percepirsi come un’entità indipendente da lei, ma tenderà a replicare i suoi stessi desideri, i suoi stessi bisogni fisici ed emotivi. Non potrà consolidarsi il senso di onnipotenza connesso alla fase transizionale, con la conseguenza che il bambino non si sentirà padrone dell’oggetto e dunque del Sé che nell’oggetto si rispecchia. Si verrà inoltre a creare un deficit di autostima e di auto-consapevolezza che non mancherà di avere risvolti patologici nel processo evolutivo.

In particolare, il frutto di questa evoluzione condizionata dalla madre oggetto e non dalla madre ambiente, originerà quello che Winnicott chiama il Falso Sé, che il bambino utilizza come mezzo difensivo da una parte per nascondere il vero Sé e dall’altra per mantenere la vicinanza con la madre; un Sé costruito sulla base dell’obbedienza, dell’acquiescenza alla volontà altrui, ma colmo di contenuti artefatti percepiti come estranei in quanto esterni, etero-determinati (1970; 1968). Questo Sé residuale appare dunque isolato dal mondo esterno e inabilitato alla creazione di relazioni e simboli: l’unico modo in cui può esprimersi è quello costruito attraverso prodotti protomentali che non hanno accesso al pensiero in quanto mai simbolizzati, e che possono essere evacuati solo in acting out patologici (Bion, 1977).

ANORESSIA E FALSO SÉ

La natura patologica del Falso Sé sembra giocare un ruolo di rilevanza nello sviluppo di disturbi dell’alimentazione, nei quali l’orientamento psicodinamico legge un’erronea percezione del corpo che il paziente tende a considerare come separato da Sé, in quanto appartenente ai genitori.

Questi pazienti mancano in realtà di qualsiasi autonomia propriocettiva, al punto da non mostrarsi in grado di tenere sotto controllo le proprie funzioni corporee (Gabbard, 2015). La madre ha infatti gestito i bisogni del bambino in base ai propri, contribuendo a creare una sensazione del Sé disintegrata e carente perché percepita assolutamente regolata da una volontà esterna.

Il comportamento della paziente anoressica rappresenta un tentativo frenetico di ottenere ammirazione e conferma come persona unica, speciale, indipendente (Bruch, 1973). Da qui la volontà di consumare i pasti da sola, di preparare da sola il cibo, di gestire in autonomia i propri bisogni alimentari: la paziente, seppure in maniera patologica, manifesta con la privazione di cibo il desiderio di libertà, di autodeterminazione, di distacco dalla volontà materna. Inoltre la ragazza anoressica non pensa che i suoi genitori potrebbero mettere da parte i propri bisogni per dare ascolto, anche solo temporaneamente, alle sue velleità di conferma e rispecchiamento. Per questo finisce con l’incrementare il digiuno e le restrizioni nel disperato tentativo di convincerli a prestare attenzione alla sua sofferenza e di riconoscere la sua richiesta d’aiuto ( Bachar et al., 1999).

D’altro canto, rifiutando l’alimentazione, la paziente anoressica può inconsciamente tentare di negare l’alimentazione a quella madre cattiva che la perseguita dall’interno e dalla quale si sente assediata, non essendo avvenuta la differenziazione madre/figlia e persistendo un legame simbiotico tra le stesse. L’unico modo per privare del sostentamento e distruggere la madre viene ad essere l’auto-privazione del cibo, la restrizione alimentare per quel Sé che contiene la madre e la estende. L’anoressica distrugge se stessa per distruggere la madre e il falso Sé che questa ha generato in lei. Anche i terapeuti della famiglia come Selvini Palazzoli (1963) e Minuchin (Minuchin et al. ,1978), hanno notato che le pazienti anoressiche non sono state in grado di realizzare una funzionale differenziazione dall’oggetto materno, neppure fisicamente, al punto da non aver raggiunto uno stabile senso del proprio corpo: un corpo che viene al contrario percepito come il contenitore di un introietto materno persecutore e cattivo, contro il quale il digiuno può essere considerato l’unico forma di difesa.

BULIMIA E FALSO SÉ

Anche nella bulimia la rilevanza patologica del Falso Sé tende ad esprimersi in una relazione materna disfunzionale, simbiotica, non differenziata, che vede nei pazienti la presenza di copioni esistenziali inautentici imposti da una madre critica ed intrusiva.

Il falso Sé contribuisce inoltre a provocare l’assenza di un oggetto transizionale che sia di supporto durante la fase della separazione materna dal punto di vista fisiologico e psichico (Goodsitt,1983). Il paziente si risolve a supplire questa assenza rendendo il suo stesso corpo l’oggetto transizionale con cui dominare l’angoscia di separazione dalla madre e la pulsione di indipendenza da lei.

Questo conflitto inconscio di dipendenza- autonomia si rispecchia nell’instaurazione di un circolo vizioso che prevede da una parte l’ingestione di cibo incontrollata, simbolo del tentativo di continuare la fusione simbiotica con la madre invasiva, e dall’altra l’espulsione immediata dello stesso per attuare un tentativo di separazione da lei. Il circuito di assunzione ed espulsione di cibo tipica della dimensione bulimica rappresenta quindi il simbolo di un conflitto tra autonomia e dipendenza, tra omeostasi e cambiamento, che la paziente non è capace di realizzare in maniera adattiva proprio a causa del falso Sé, che non ha consentito la verbalizzazione e la consapevolezza emozionale, la propriocezione fisiologico-psicologica, l’espressione aperta del disagio, l’integrazione funzionale del Sé, la conquista dell’autonomia. Ma rappresenta anche l’espulsione di quegli elementi beta non rielaborati dal punto di vista psichico, e rimasti ad uno stato proto mentale, non verbalizzato né accessibile alla coscienza, che il paziente avverte come invasivi, persecutori, potenzialmente distruttivi. Sono le angosce non metabolizzate, non digerite, che possono essere solo espulse dal corpo, in un disperato tentativo di catarsi liberatoria.

Per riassumere è dunque evidente come il Falso Sé eserciti un ruolo fortemente patologico nei disturbi in cui è compresa la gestione delle necessità fisiologiche e la consapevolezza della corporeità, e come le conseguenze patologiche dei disturbi stessi simbolizzino il tentativo del paziente di affrancarsi dal “giogo familiare” affermandosi come individuo autonomo e autodeterminato; ma rappresentano anche la volontà di attaccare il falso Sé promosso dalle aspettative genitoriali non condivise, il tentativo di demolire la sensazione di un introietto materno ostile visto come equivalente al corpo, di restituire le proiezioni difensive genitoriali non metabolizzate ai genitori stessi, di tracciare una linea di confine esistenziale tra sé e i genitori, e dunque di esistere in Sé e per Sé (Gabbard, 2015).

La lotta del vero Sé contro il Falso Sé torna così, seppure in maniera disfunzionale, al medesimo punto da cui era partita: la volontà di autonomia e autoaffermazione necessaria alla sopravvivenza psichica.

Dott.ssa M. Rebecca Farsi

Psicologa

Vincitrice del Contest WEWANTYOU

nel mese di giugno 2020

mail. celeste.psico@libero.it

Per Approfondire

– Bachar, R., Latzer, Y., Kreitler S., et al. (1999), Empirical comparison of two psychological therapies: self psychology and cognitive orientation in the treatment of anorexia and bulimia, in Journal of psychotherapy practice and research, 8, pp. 115-128;

– Bion, W. (1967), Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, tr.it. Armando editore, Roma;

– Bruch, H. (1973), Patologia del comportamento alimentare, Tr.it. Feltrinelli, Milano (1977);

– Gabbard, G.O. (2015), Psichiatria Psicodinamica, Raffaello Cortina, Milano;

– Goodsitt, A. (1983), Self-regulatory disturbances in eating disorders, in International Journal of Eating Disorders, 2, pp. 51-60;

– Minuchin, S. Rosman, B.L., Baker, L., (1978), Famiglie somatiche: l’anoressia nervosa nel contesto familiare, Tr.it. Astrolabio, Roma, 1980;

– Selvini Palazzoli, M. (1963), L’anoressia mentale, Raffaello Cortina, Milano (2006);

– Winnicott, D.W. (1970), Sviluppo affettivo e ambiente, Roma, Armando, 1974;

– Winnicott, D.W.(1968),  La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, Roma, Armando, 1982

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