Elogio della tristezza. Ciò che la felicità non dice
“Non si può essere profondamente sensibili in questo mondo senza essere molto spesso tristi.
(Erich Fromm)”
Immagini, post, condivisioni, hashtag e tweet! La frenesia dei nostri tempi mira ad esaltare il godimento e la felicità perenne, almeno apparentemente, della persona di turno, allontanando il più possibile l’insoddisfazione e il profondo senso di vuoto. Difficilmente sui social potremo trovare post o commenti che descrivono emozioni profonde, a meno che, anch’esse, non conservano un aspetto esibizionistico.
La ricerca e l’ostentazione della felicità perenne è il fil rouge di ogni intenzione, ed ecco dunque nascere percorsi per trovare la propria felicità, strategie per allontanare pensieri negativi, fino ad arrivare a pratiche per indursi la risata, con l’idea che illudendo il corpo si possano illudere i propri pensieri.
In realtà la ricerca di una felicità soltanto immaginata e mai provata, nasconde la ricerca illusoria di qualcuno diverso da se stessi, diventare qualcuno di migliore, che non possa mai soffrire, disancorandosi dalle proprie consapevolezze psicocorporee.
Immaginiamoci, dunque, di rincorrere un’immagine artefatta, un riflesso migliore di se stessi, ma, contemporaneamente, alle spalle, ci insegue un mostro, una parte di noi negata e rifiutata, il nostro vuoto interiore. Tale dinamica interna viene molto spesso raffigurata attraverso sogni dove un oggetto o una persona tanto ambita è irraggiungibile e non appena ci rendiamo conto della sua inafferrabilità, veniamo inseguiti da un’entità minacciosa e inquietante che ci vuole sopraffare.
Quella parte di se stessi da cui si fugge, nasconde in sé l’esperienza della tristezza, del dolore, del porsi domande scomode, del mettersi in discussione in maniera angosciante.
La tristezza rappresenta in questi casi un’emozione fondamentale che ci permette di collegarci ad una parte più introspettiva di noi, arrivando a comprendere che tutto ciò che ricerchiamo all’esterno non è altro che una mancanza profonda all’interno. Pertanto, piuttosto che colpevolizzare il mondo di essere incapace di accogliere i propri bisogni, talvolta bisognerebbe comprendere quali mancanze profonde abbiamo dentro di noi, e se l’aspetto irrazionale impedisce concretamente di essere risolte o colmate.
Per Immergersi nelle proprie angosce è fondamentale prendersi il proprio tempo, dialogare con le proprie paure, frenare il proprio bisogno di risposte immediate, di agiti e di compensazioni esterne. Significa contemplare ed esplorare il proprio vuoto, i propri bisogni infantili d’amore rimasti ancora inespressi, il bisogno di legarsi, e di allontanarsi dalla tendenza nell’autogiudicarsi, tutto ciò rappresenta una fase di transizione, dove l’emozione più dolora è il profondo senso di solitudine. Una volta compresa, però, la potenzialità di poter abbracciare il proprio vuoto, si è in grado anche di creare legami con l’altro fondati sul desiderio di condivisione e non più sul bisogno di compensazione.
Si commette l’errore di giudicare la tristezza, l’angoscia e tutte le emozioni scomode come elementi disfunzionali del nostro essere da eliminare per poter diventare adulti e maturare. In realtà sono proprio quelle emozioni che ci permettono di collegarci ai nostri vissuti più autentici, infantili o meno che siano. Sono vissuti che pretendendo di essere ascoltati, capiti e presi in considerazione, e non dagli altri ma da se stessi. Infatti, più ci allontaniamo dal tentativo di comprendere i nostri bisogni emotivi e i nostri pensieri più profondi, e più aumenterà la sensazione di essere soli al mondo, convinti che nessuno possa capirci.
Probabilmente, per iniziare ad osservare le nostre mancanze interiori, dovremmo chiederci:
Come possiamo pretendere che qualcuno ci capisca fino in fondo se siamo noi stessi a negare la parte più bisognosa e sincera di noi stessi?
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Per approfondire
A. Miller, 1979 Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero Sé, Bollati Boringhieri
Film: Inside Out