Società guardaroba. Partenze, accoglienze e mondo migrante
Ogni grande sbarco di migranti è seguito da una tempesta mediatica che si scatena puntualmente ogni volta, che dura qualche giorno, si affievolisce sempre più e poi si riacutizza allo sbarco successivo riattivando lo stesso processo circolare.
Ma cosa succede prima dello sbarco? Perchè si decide di intraprendere questo viaggio? Dopo che le televisioni ci informano sullo smistamento o meno dei migranti, che fine fanno queste persone?
Con questo articolo, prendendo come esempio lo sbarco della nave Diciotti, cercheremo di dare delle risposte, seppur in maniera generica, a queste domande.
La grande maggioranza delle persone sbarcate dalla Diciotti sono di origine Eritrea, quindi per capire cosa c’è dietro la decisione di mettersi in viaggio, è doveroso conoscere l’attuale situazione del paese africano.
L’ Eritrea vive un conflitto con l’ Etiopia che dura da 20 anni per la definizione dei confini e per la contesa della città di Badme. Nonostante già nel 2000, con l’accordo di Algeri, i due paesi ratificarono ufficialmente la pace, l’esercito etiope non è mai stato ritirato dalla città di confine. In questi ultimi mesi si sta lavorando per la definitiva cessazione del conflitto, che negli anni ha portato alla morte di circa 19.000 soldati eritrei.
Dal 1993 il paese è sotto la guida del dittatore Afewerki, che ha vietato la formazione di altri partiti politici oltre all’ FPDG, guidato dal dittatore stesso, che di fatto mantiene sospesi e quindi non applicati i diritti civili dei cittadini, sanciti dalla Costituzione. E’ stata istituita la leva obbligatoria indefinita (può terminare all’età di 50 anni per gli uomini, e all’età di 40 per le donne) dai 17 anni, sia per gli uomini che per le donne. Fino al compimento del 60esimo anno di età i cittadini eritrei non hanno la libertà di possedere il passaporto e quindi di poter lasciare regolarmente il paese.
“L’esercizio di mettersi nei panni degli altri
ci permetterebbe di avere una società migliore”
Elio Germano cita Kropotkin
Provando ad indossarli i panni di un eritreo, che non ha la libertà di poter uscire dal proprio paese e di vedere un posto nuovo, non è libero di scegliere chi lo debba rappresentare, che ha come unica prospettiva di vita lo sperare che un giorno la guerra finisca, che qualcosa nel suo paese cambi e che lui non sia già morto nel frattempo; provando ad indossarli questi panni, resteremmo a “casa nostra”, non rischieremmo anche noi un viaggio della speranza?
Sia andando indietro negli anni, sia analizzando il recente passato è facile riconoscere le grandi responsabilità che il nostro paese, e molti altri in Europa hanno rispetto agli attuali flussi migratori.
I paesi occidentali a cavallo tra l’800′ e il 900′ hanno invaso e colonizzato i paesi africani, creando nuove rotte commerciali per sfruttare le loro risorse, ed ora sfruttano queste stesse rotte per il commercio di armi.
Ancor di più, quindi, vanno trovate soluzioni efficaci che permettano un’accoglienza, un eventuale collocamento o un’eventuale integrazione che rispettino l’umanità delle persone.
Creare barriere, chiudere i porti e alzare muri non sono mai state soluzioni intelligenti e mai lo saranno.
L’ex presedinte dell’Uruguay, Josè Pepe Mujica Cordano, in un recente intervento in Italia ha dichiarato:
“L’immigrazione massiccia che vide la zona del Rio de la Plata durante la prima parte del 900′ fu dovuta principlamente alla fuga dalla guerra e dalla miseria che affliggevano l’Europa. Le nuove generazioni probabilmente non lo ricordano, visto che dopo si è sperimentato un periodo lunghissimo di pace, piuttosto insolito per un continente molto bellicoso come il vostro. L’Europa si è spartita l’Africa nell’800′ e, mentre mostrava i benefici della cultura occidentale, soppiantava la cultura primitiva e tradizionale africana. In fondo l’onda migratoria africana è la conseguenza diretta del colonialismo europeo.”
Fortunatamente oggi non siamo noi a trovarci in queste situazioni, non siamo noi ad essere in guerra o a subire gravi limitazioni della nostra libertà, ma personalmente, provando anche solo a pensare di indossarli quei panni, qualche brivido lo sento e penso che cercherei anche io la salvezza in una barca, ovunque essa porti.
Il cantautore romano Alessandro Mannarino, nella sua “Apriti cielo”, tratta direttamente e decisamente il tema del “viaggio migrante”.
“…il vento che passa, il cielo che vola, e una vita sola, e una vita sola;
apriti cielo, sulla frontiera, sulla rotta nera una vita intera,
apriti cielo per chi non ha bandiera,
per chi non ha preghiera,
per chi cammina dondolando nella sera…”
E cosa succede poi una volta sbarcati “in Italia”?
Il sistema di accoglienza in Italia è strutturato su due livelli: prima accoglienza, che prevede gli hotspot e i centri di prima accoglienza, e seconda accoglienza, lo SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).
La prima accoglienza dovrebbe servire a garantire ai migranti il primo soccorso, a procedere con la loro identificazione, e ad avviare le procedure per la domanda di asilo. Dovrebbero essere procedure veloci, per poi assegnare i richiedenti asilo ai progetti SPRAR, ossia alla seconda accoglienza. Ho usato il condizionale perchè nell’ultimo periodo i beneficiari del sistema di accoglienza sono aumentati ed il programma SPRAR per funzionare bene deve lavorare con numeri stabiliti, in modo da poter garantire una reale accoglienza e integrazione nel territorio. Con l’aumento delle richieste il sistema non può funzionare. Troppe domande e troppi pochi posti. Aumentare i posti, di fronte alle difficoltà nel rapporto con i comuni( non tutti i comuni sono disposti ad accogliere o ad aumentare il proprio numero di accolti), è un processo lento. Quando si crea questo sovrannumero intervengono i cosiddetti CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), una soluzione che formalmente rientra nella prima accoglienza a cui si accede spesso direttamente dai porti di sbarco, ma praticamente dà ormai un’accoglienza di lungo periodo come accade nella seconda accoglienza.
Radici Online, qualche giorno fa, ha pubblicato un articolo riguardante alcuni migranti della Diciotti arrivati nel CAS di Milano “Casa Suraya”.
Dall’articolo e dai racconti dei migranti stessi oltre a trasparire l’enorme sofferenza di un viaggio che dura anni, che spesso passa per una sosta forzata in Libia, dove si subiscono stupri e torture, si evince la visione dell’Italia come punto di passaggio e non di un paese dove stanziarsi; la vera meta dei migranti di oggi è il Nord Europa.
Il tema dei migranti, in questi ultimi periodi in particolare, sta dando vita ad animate discussioni che purtroppo sempre più spesso perdono di vista l’umanità e trattano le persone come se fossero numeri. Si sta montando un clima di odio e di terrore verso lo straniero e verso il diverso in generale, che porta la popolazione a sovrastimare il fenomeno migratorio. Un’analisi dell’Istituto Cattaneo ci dice che l’italiano medio dichiara che la popolazione italiana sia composta per il 25% da extracomunitari, distorcendo ampiamente il dato reale. La quota di immigrati nel nostro paese si aggira attorno all’8% e di questi, solo il 5,3% sono extracomunitari, ovvero provenienti da paesi non aderenti alla comunità europea.
Dal libro intervista del sociologo e filosofo polacco Zygmunt Buman curato da Benedetto Vecchi:
In una società sempre più segnata dalla deregulation e dalla flessibilità l’individuo finisce per avere tutto il peso sulle sue spalle, vengono a mancare forme di solidarietà e punti di riferimento comunitari che in passato aiutavano a condividere il fardello. Inoltre da media ed esperti vari arriva sempre di più un incitamento generale al disimpegno, a non pensare a contratti solidi, anzi a vedere come negativa ogni forma di legame che si proietti poco più avanti del quotidiano. Ecco allora nascere quelle che il sociologo polacco chiama comunità guardaroba, che funzionano a tempo, stanno assieme fino a quando qualcuno decide di riprendersi il suo abito e andarsene. In un mondo di modernità liquida i piani a lunga scadenza diventano poco attraenti. La strategia del carpe diem diventa così la risposta più immediata a un mondo svuotato di valori che pretende di essere duraturo perché “the show must go on”, comunque e ovunque. «Da te la “società” vuole soltanto che non lasci il tavolo da gioco e disponga ancora di fiches sufficienti per continuare a giocare» dice amaro Bauman. Ecco allora che trovare un’ identità, un’appartenenza diventa sempre più difficile e altrettanto più necessario.
Come dice Bauman, la società moderna sta creando una vera e propria crisi identitaria e in uno scenario simile fare propaganda e trovare il capro espiatorio nel più debole e nel “diverso”, risulta fin troppo semplice.
Questo articolo non vuole essere di parte, ma vuole cercare di dare un quadro del mondo migrante che possa far riflettere e permettere di rimanere umani verso il prossimo, chiunque esso sia.
Gugliemo Bruno, in arte Willie Peyote, rapper e cantante torinese canta in “Io non sono razzista ma”:
“Stando ai discorsi di qualcuno,
Lampedusa è un villaggio turistico
i cinesi ci stanno colonizzando
e ogni Imam sta organizzando un attentato terroristico
stando ai discorsi di qualcuno,
gli immigrati vengono tutti in Italia
qui da noi non c’è più futuro,
guarda i laureati emigrati in Australia
beh è troppo facile dire “questi ci rubano il lavoro,
devono restare a casa loro”
che poi se guardi nelle strade della mia città,
ci sono solo Kebabari e compro oro, ma pensa
che se uno che non sa bene la lingua
e non ha nessuna conoscenza
riesce a fotterti il lavoro con questa facilità,
servirebbe un esame di coscienza”
Dott. Diego Bonifazi
(+39) 3296614580
Per Approfondire
Kropotkin – Il mutuo appoggio Ennesse Editrice
Zygmunt Bauman – Modernità Liquida Editori Laterza
radici.online
Alessandro Mannarino – Apriti Cielo
Willie Peyote – Io non sono razzista ma