Anoressie. Sui sensi del rifiuto
Guardando al passato, quando ci si accostava al termine anoressia (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “L’anoressia – Dallo svezzamento al rifiuto del cibo”), l’associazione quasi scontata era all’età adolescenziale, intesa come la fase ma anche come “il luogo”, entro cui il disturbo finiva con il convogliarsi massimamente. Di contro, l’osservazione clinica odierna, pur suggerendoci di mantenere ugualmente la guardia alta visto il delicato momento di transizione che l’adolescenza delineerebbe, quasi c’impone di spostare parecchio all’indietro l’esordio di quella che oggi si pone come una delle patologie più gravi e complesse del nostro tempo.
E’ il caso delle anoressie infantili e di quei rifiuti che si pongono già così ostinati e stridenti nonostante la tenera età dei piccoli coinvolti (anche 5 – 6 anni). E allora: che valore può assumere una simile forma di rinuncia al nutrimento, quando così precoce? Esattamente, il bambino, cosa sta tentando di comunicare all’altro con quel rigetto della vita tanto caparbio?
Per comprendere uno dei possibili sensi assunti dal rifiuto alimentare infantile, è necessario modificare la nostra lente d’osservazione sul disturbo: ancor prima che indicativa di un rapporto alterato col cibo, l’anoressia si colloca come una malattia della relazione, che pertanto esige di prestare estrema attenzione al rapporto con l’altro significativo. Ecco che allora, specie nei bambini molto piccoli, essa implica la presenza di un dubbio sull’amore dei propri genitori. E’ una sorta di domanda d’amore che si traveste di repulsione per la vita. E’ un po’ come se il piccolo, rifiutando di alimentarsi, tacitamente, chiedesse al genitore: “Se io non mangiassi più, se mi ammalassi, se sparissi, se mi spegnessi, la tua esistenza avrebbe ugualmente un senso anche senza di me”? Il rifiuto del cibo diviene allora rifiuto dell’altro (oggetto d’amore), allo scopo di ottenere un qualche tangibile segno, una testimonianza della sua presenza. Quel gracile corpo, testa, in qualche modo, il corpo ed il desiderio, l’amore, dell’altro. Il corpo è qui domanda di presenza dell’altro.
Ma – accanto al rifiuto impiegato come richiesta di segno – in realtà esistono anoressie diverse che urlano a gran voce altri, molteplici, sensi possibili. Prima di approfondirne altri due, corre l’obbligo di soffermarci sull’uso voluto del plurale (anoressie), che oggi più che mai, si rende necessario. Andare oltre la superficie dei sintomi (uguali) e visibili, spingendosi fin alle strutture di personalità sottostanti, permette al clinico di orientare il trattamento nel modo più mirato possibile; pertanto le anoressie – ma anche le bulimie, come pure le obesità (per un approfondimento, si rimanda agli articoli “Obesità – L’imbottitura dell’anima” e “Obesità e bulimia – Possibili declinazioni del vuoto”) – sono solo apparentemente identiche fra loro, poiché dietro a quei segni oggettivi e tangibili validi per qualunque anoressica (corpi e comportamenti tendenzialmente uguali), si nascondono soggettività differenti da cui dipenderà sensibilmente la gravità del relativo disturbo.
In altri casi, ad esempio, l’anoressia può essere impiegata come strumento che permette la creazione di una distanza simbolica dall’altro, desiderio del tutto normale e legittimo che nell’adolescente si fa decisamente urgente e non procrastinabile. In altre parole, una ragazza adolescente potrebbe appellarsi al suo personale rifiuto di nutrimento per separarsi e differenziarsi dai genitori, che sino a quel momento ne avevano deciso le sorti, arrivando a gestirne e manipolarne il corpo; ora, attraverso la disobbedienza, gestendo da sé l’ ingresso del cibo nel proprio corpo, quella stessa ragazza potrà per la prima volta percepirsi cosa – altra e rivendicare la propria soggettività.
L’ultima, fra le tante, odierne, forme anoressiche, si pone come una malattia tipica dell’era iper–moderna: figlia della società consumistica, affonda il suo senso nell’idea di “religione del corpo”. In questa accezione, il rifiuto del cibo discende dall’odio radicato e profondo nutrito per un corpo che stenta a rispondere al proprio – inarrivabile – ideale superegoico: è un corpo che mostra di avere sempre dei difetti e pertanto, costantemente inadeguato.
E’ un corpo ingovernabile, proprio come il corpo della giovane adolescente, che è preda della rivoluzione ormonale e dei suoi effetti e da cui discende il pessimo rapporto con lo specchio. Ma è anche il corpo della cinquantenne che cede al suo naturale decadimento fisiologico. Un corpo mai troppo magro, di cui non siamo e non saremo mai padroni, ma di cui non si accettano i segni, i naturali limiti. Un corpo che – in questa patologia della modernità – diviene un vero e proprio culto: nel folle convincimento di poterlo auto – produrre, la persona ne fa un Dio da adorare e al quale asservirsi totalmente. Senza sconto alcuno. E’ il mito del corpo del fitness – o della chirurgia plastica – che dev’essere sempre perfetto.
In questa accezione, il corpo è mio eppure sfugge al mio controllo, è un corpo che si trasforma nonostante il mio volere contrario: ed ecco stanato il senso del rifiuto anoressico, qui scelto nella convinzione di potere disciplinare quel corpo che è stato fin troppo ribelle, nel tentativo di ristabilirne i giusti dettami. E’ un corpo a cui non è concessa alcuna indulgenza, ed è un corpo che anela eternamente ad una perfezione irraggiungibile, il cui solo scopo – radicalmente narcisistico – sembrerebbe essere quello di bastare a se stesso.
Dott.ssa Carmela Lucia Marafioti
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Per Approfondire:
- M. Recalcati, L’ultima cena – Anoressia e bulimia, Bruno Mondadori, 2007
- M. Recalcati, Cliniche del vuoto – Anoressie, dipendenze, psicosi, Franco Angeli, 2016