Fottuti per sempre?
No, se sapremo ascoltare
Eravamo giovani, ingenui, arrabbiati, allegri e disperati
Credevamo che i soldi fossero il male
Odiavamo chi sventola le manette
Chi ha sempre qualcuno da condannare
Eravamo dalla parte di chi non ha niente
Non importa l’appartenenza sociale, l’identità sessuale
Avevamo letto da qualche parte
“Un uomo è ricco in proporzione al numero
Di cose delle quali può fare a meno”
Ma anche che il sistema schiaccia chi non ha denaro
E si serve di chi è povero di pensiero
Credevamo di poter parlare di tutto senza qualificarci
E senza inginocchiarci davanti al progresso
Le idee non sono discoteche
Non fanno selezione alla porta d’ingresso
Credevamo che ci si salva solo insieme
Che la felicità è sovversiva quando si collettivizza
Che la libertà di lamentarsi di ogni cosa
Non avesse niente a che fare con la libertà
Che essere diversi fosse un diritto
Non una scusa per attaccare chi non ti ha capito
Volevamo cambiare tutto
Non riempire un altro vuoto di mercato
Andavamo a un concerto sconvolti come un rito sciamanico
E alla fine dormivamo alla stazione
Pensavamo che la vita sulla terra
Non dipendesse da come andavano i sistemi economici o politici
Ma dal brillare del sole
Eravamo giovani, giovani o pazzi
Ma avevamo ragione
Questa è la parte conclusiva, interpretata da Vasco Brondi, che con il suo featuring, chiude la canzone del “Lo Stato Sociale”, “Fottuti per sempre”.
E’ una canzone generazionale, mi verrebbe da dire, la generazione di noi del Sigaro di Freud, quella che sta lasciando andare i 30 anni e si avvicina ai 40. Una generazione che ne ha combattute di battaglie, che spesso si è sentita trattare da scema, da idealista, con sufficienza da chi, per qualche strano, o forse no, motivo, si sentiva in diritto e dovere di giudicare. Molte battaglie, tante per la scuola, per l’istruzione. Alcune manifestazioni le ricordo bene ancora oggi e forse per questo, a distanza di molti anni, ascoltando la canzone de “Lo Stato Sociale”, mi sono venuti in mente i ragazzi e le ragazze della maturità di quest’anno. In particolare, ovviamente, il caso di cui tutti e tutte avrete sentito la notizia. Le tre ragazze del liceo classico di Venezia, che per protesta hanno fatto scena muta all’esame orale. O meglio, hanno deciso di non rispondere alle domande della commissione, leggendo invece una nota dove spiegavano le loro motivazioni.
Questo episodio ha acceso, ancora una volta, il dibattito sul valore dell’esame di maturità e su quanto questo riesca a rispecchiare l’effettivo impegno, studio e conoscenze apprese nell’arco dei cinque anni.
Potremmo parlare ore, scrivere pagine su pagine di possibili modifiche, cambiamenti dell’esame di maturità, o di quanto sia al finale necessario uno snodo per confluire nel mondo universitario o lavorativo; nel mondo dei grandi. Potremmo discuterne a lungo appunto, ma difficilmente si arriverebbe ad una conclusione generalmente condivisibile. Per questo la riflessione di questo articolo si concentrerà più su come questo gesto è stato visto dall’Istituzione scuola.
Elena Donazzan, assessora all’istruzione della regione Veneto, ha definito il gesto un “grave atto di disobbedienza”. Ha inoltre aggiunto “Questa disobbedienza va punita. E’ una provocazione e una mancanza di rispetto verso i docenti e verso l’istituzione scolastica. Così facendo mostrano di non essere realmente mature”.
La commissione ed il Presidente hanno fatto quadrato, sostenendo che tutti i voti sono frutto del confronto all’interno della commissione stessa.
I media hanno iniziato subito a pubblicare articoli dove le tre ragazze vengono definite “le tre ribelli”.
Fa sorridere l’utilizzo del termine ribelli. Proprio la scuola, che dovrebbe aiutare a stimolare un pensiero critico, a creare alternative, possibilità, diversi colori, non può permettersi di accettare una critica. Deve correre a proteggersi nel suo monotono bianco o nero.
Difficilmente, se non da nessuna parte, è capitato di leggere commenti o dichiarazioni che tenessero in considerazione il punto di vista delle ragazze. Nessuno che ha cercato di entrare in sintonia con il loro vissuto. Perché è alla fine, quella versione di greco poteva anche essere stata valutata nel modo migliore, senza pregiudizi, ma questo non cambia il vissuto di queste tre ragazze e dei loro compagni e compagne, che hanno visto mettere in discussione tutto il loro percorso fino a quel momento.
E allora dare voce a quella che si sente come un’ingiustizia viene vista per forza come una mancanza di rispetto e nient’altro. Nient’altro perché non ci si è messi in ascolto.
Se nessuno ascolta, questa di generazione è fottuta per sempre?
No, finché c’è qualcuna o qualcuno che avrà la forza di tirare fuori quelle che sente come ingiustizie, c’è la speranza che qualcuno/a dall’altra parte ascolti.
Questa la nota letta ai professori al momento dell’orale.
«Gentili professori, ho deciso che oggi non mi sottoporrò all’esame orale, non certo perché io ne abbia paura o perché non abbia studiato, ma perché non voglio accettare il vostro giudizio che non rispecchia il mio lavoro e perché non tollero la mancanza di rispetto nei miei confronti. Mi ero immaginata la maturità come la celebrazione del percorso fatto fino ad oggi, invece sono sempre più convinta che sia l’apogeo delle ingiustizie subite da noi studenti. Così voglio smettere di stare al gioco ipocrita di questo sistema scolastico, di questa scuola e di questi professori continuando ad annuire e sorridere a qualsiasi cosa. Non accetto più questo meccanismo che dà potere indiscusso e incontrollato agli insegnanti e che sembra avere come unico scopo quello di rendere infelici e insicuri il maggior numero di studenti possibile. Rispettare l’istituzione, questo è quello che ci viene detto di fare, non vale però il contrario. I torti subiti sono tanti, questi sono solo alcuni. Certi professori che in dad non hanno fatto lezione per mesi perché, a detta loro, non avevano i mezzi per farla, altri che regolarmente non si presentano alle interrogazioni da loro programmate, insegnanti cambiati nonostante rimanessero in questa scuola, docenti che sostituiscono la propria lezione con la lettura dai libri di testo e, ancora meglio, la promessa di essere tutelati che è valsa per uno solo di noi. Alla fine però sono solo gli studenti ad essere considerati insufficienti. Per questo vorrei che tutti i professori si facessero un esame di coscienza e si chiedessero: “il mio lavoro è sufficiente?”.
E adesso, quando si giunge alla conclusione di questo percorso, vengo punita senza una ragione con un voto che in ogni caso non corrisponde né alla prova svolta né alla mia preparazione, e quindi mi chiedo se sia veramente sensato continuare ad essere sminuita da una commissione che evidentemente non ci porta rispetto. La risposta è no, non voglio continuare, preferisco lasciare questa scuola cosciente del mio bagaglio culturale acquisito anche grazie a insegnanti valevoli e delle mie capacità che mi hanno permesso di ottenere una borsa di studio completa negli Stati Uniti piuttosto di vedere violata la mia dignità. Questo non è il nostro fallimento, ma il vostro!».
Email: diego.bonifazi@yahoo.it
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