Il benessere mentale
Le lotte sociali contro le stigmatizzazioni
“Cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario con una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia? Te lo dico io cosa ottieni: ottieni il cazzo che ti meriti.” dal film “Joker” del 2019
Il 10 Ottobre sarà la giornata mondiale della salute mentale, un po’ in anticipo per stare sul pezzo, ma certi argomenti non necessitano di una ricorrenza sul calendario per stimolare riflessioni. È infatti in seguito alla visione di un film, erroneamente scartato per via dei miei infondati pregiudizi, che ho maturato dei pensieri riguardo questo tema.
Riportando la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, chiamiamo salute mentale:
«uno stato di benessere nel quale una persona può realizzarsi, superare le tensioni della vita quotidiana, svolgere un lavoro produttivo e contribuire alla vita della propria comunità».
Guardandoci oggi, come individui gettati nel mezzo del trantran occidentale e del frastuono del capitale, lo stato di benessere tanto ambito rimanda ad un treno appena partito, facile da raggiungere ma di fatto irraggiungibile. Oscilliamo perennemente tra l’illusione che il nostro desiderio si stia per realizzare e la disperata consapevolezza che esso sia irrealizzabile.
Credo che molte siano le lotte collettive in nome della salute mentale ed esse non si limitano ad appartenere all’ambito clinico. Sono sotto gli occhi di tutti ma ai più sono difficili da distinguere. Oltre a chi lotta per vedersi riconosciuto il diritto di essere visto come un essere umano e non come “una malattia mentale con le gambe”, c’è infatti chi combatte per amare una persona dello stesso sesso, c’è chi si batte per avere gli stessi diritti dell’altro sesso, c’è chi si batte per avere gli stessi diritti di un uomo occidentale bianco pur mantenendo le radici con le proprie origini. Queste sono solo alcune lotte, ovviamente. Diversi movimenti, i quali, conducendo le loro battaglie a livello sociale, hanno come obiettivo la riduzione della stigmatizzazione/discriminazione e il raggiungimento della serenità a livello mentale. Perché se non c’è spazio per me nella società di cui faccio parte non c’è spazio nella mia mente per la serenità.
In realtà tutte queste lotte, e tutte le altre che non ho nominato, sono lotte mosse dall’umano desiderio di riconoscimento.
“Desidero che il mio esser-così sia riconosciuto dall’Altro come un valore in sé. Desidero che l’Altro mi apprezzi per come sono invece che per come dovrei essere. Il mio più profondo bisogno è quello di essere amato così come sono, nonostante i miei limiti, le mie debolezze, le mie mancanze e le mie colpe.” (Stanghellini, 2017).
Posizionandosi dalla parte di chi riconosce, è necessario chiarire come:
“Il riconoscimento non è mera comprensione, né semplice approvazione delle azioni dell’Altro. Non è comprensione poiché non è mera identificazione degli stati mentali che causano le sue azioni. Non è neanche semplice approvazione o consenso, in quanto non è un tipo di giudizio o di posizione etica rispetto all’Altro. Si tratta, piuttosto, di una prontezza emozionale e intellettuale, molto più complessa, a riconoscere le ragioni dell’altra persona.” (Ibidem)
Siamo tutti coinvolti in queste lotte di riconoscimento, dove l’Altro può essere un individuo ma può coincidere anche con la collettività. La mia salute dipende anche dalla soddisfazione derivante da questo riconoscimento, dipende dal fatto che, come individuo, sento di aver ottenuto il rispetto e la fiducia dell’Altro. Sto bene se il mio colore della pelle, il mio orientamento sessuale, i miei cambiamenti corporei, il mio genere, non sono visti come deviazioni, come qualcosa di abnorme e diverso, ma sono riconosciuti come uno degli infiniti modi-di-essere in questo mondo. Ne consegue come il mancato riconoscimento, oltre a perturbare il benessere psichico della persona, sia generatore di differenze sociali e, alle lunghe, la sua esacerbazione sia responsabile di tutta una serie di violente discriminazioni rinvenibili nella nostra società.
Ed è quello che possiamo vedere in Joker (2019), pellicola a cui mi riferivo nelle prime righe, dove il personaggio Arthur è il prodotto scadente di una società che allo stesso tempo lo denigra e lo erode ulteriormente, abbandonandolo, dimenticandolo. Arthur, che in seguito alla metamorfosi indotta dai sempre più crescenti soprusi diverrà Joker, diviene il simbolo della lotta per il riconoscimento in una società che fa finta di non vedere, che tratta gli ultimi come polvere da nascondere sotto il tappeto e che di fatto rimane lì, ad accumularsi. Joker rappresenta l’esasperata battaglia dei deboli, di chi non ci sta più ad essere trattato come immondizia, dei reietti e dei poveri. Joker è un personaggio che in qualche modo rappresenta tutti, ha un qualcosa che riguarda tutti. Joker rappresenta le vittime di bullismo, le vittime di bodyshaming, le donne bersaglio di violenza, le minoranze etniche, gli omosessuali, i feriti dai tagli economici delle istituzioni, gli incompresi i disperati, tutti.
Nelle parti finali del film, la violenza con cui i rivoltosi chiedono di essere trattati alla stregua di tutti gli altri è figlia della stessa violenza con cui sono stati emarginati e maltrattati, perché si arriva ad un punto in cui salta ogni dialettica diplomatica, in cui la lotta per il riconoscimento, affinché ottenga dei risultati, deve necessariamente diventare sanguinosa, come quella scaturita nella finzione del film di Joker, come quella scaturita nel reale dall’ingiusto assassinio di George Floyd.
Ognuno di noi può causare dei micro-interventi su un piano societario a favore dell’alterità e del riconoscimento di essa. Perché arrivare a riconoscere l’importanza dell’ “essere-così” dell’Altro è la vera ricchezza che dobbiamo riscoprire, il tesoro ricoperto dalle esplosioni vulcaniche di una società che, non avendo tempo per gestire le diversità, cerca ad ogni costo di soffocarle.
Dott.ssa Valentina Urso
Psicologa Clinica e della Salute
Per approfondimenti
Joker. Regia di Todd Phillips. Warner Bros. 2019
Stanghellini, G., (2017) Noi siamo un dialogo. Raffaello