Società Performativa
L’università e la vita non sono una gara

“Strappare lungo i bordi” – Zerocalcare

L’università non è una gara. O meglio la vita non è una gara e non dovrebbe diventarla.

Eppure siamo tutti consapevoli di vivere in una società fortemente performativa in cui uno dei miti principali è “avere successo”.

Successo a cui siamo spinti, non senza pressioni, per sentire di avere un ruolo e una buona posizione nella società.

Il tema è particolarmente delicato ed è stato risollevato qualche giorno fa da Emma Ruzzon, presidente del consiglio degli studenti e delle studentesse di un importante ateneo italiano che, a seguito dell’ennesimo suicidio da parte di un’universitaria, ha portato all’attenzione le aspettative pressanti di un sistema educativo e culturale che non tutela a sufficienza la salute mentale degli studenti.

Aspettative che iniziano sin da quando siamo bambini e crescono in adolescenza fino ad arrivare a livelli esponenziali nella giovane età adulta.

Pressioni con cui ognuno di noi si è confrontato almeno una volta nella vita e che, in alcuni casi, diventano schiaccianti, fino a portare a diverse forme di psicopatologia e, nei casi più estremi, al suicidio.

Ovviamente quello della sofferenza mentale e del suicidio negli universitari sono temi delicatissimi. È necessario tenere a mente che il benessere mentale così come la psicopatologia, non possono essere ascrivibili ad un’unica causa ma sono legate a una complessa rete di strutture che comprendono gli individui con le loro specificità biologiche e psicologiche, l’ambiente, i gruppi, la cultura, la società nel suo insieme ( Bronfenbrenner, 1979).

Un aspetto che merita attenzione è la rischiosa tendenza della società contemporanea di puntare su risultati elevati da conseguire a tutti i costi, sulla base di una pressione sociale a cui sottostare, anche a dispetto della salute mentale.

Nel suo discorso la studentessa ha dichiarato: “Sentiamo il peso di aspettative asfissianti che non tengono in considerazione il bisogno umano di procedere con i propri tempi, nei propri modi” dando voce al vissuto di moltissimi universitari del nostro paese.

I propri tempi e i propri modi” . In un mondo in cui abbiamo imparato ad accelerare anche i messaggi vocali degli amici perché non abbiamo tempo per ascoltarli, schiacciati dalla velocità, dal fare, dall’ottenere, rischiamo di accelerare la vita e non goderci più nulla.

Abbiamo mercificato le nostre vite e il tempo, riempito tutti gli spazi, fino a reprimere il nostro diritto umano di rallentare (per un maggiore approfondimento si rimanda all’articolo “Elogio della lentezza – rallentare come atto rivoluzionario e benefico”). Perché se ci fermiamo, quando ci fermiamo, rischiamo di sentirci in colpa, di sentire che non stiamo facendo abbastanza.

Forse anche da questo nasce la narrazione tossica dei traguardi universitari raggiunti senza errori, senza intoppi, senza perdere tempo. La narrazione di studenti modello che altro non rispecchiano la retorica del farcela a tutti i costi, del vincere, dell’essere forti.

Ecco allora che anche la laurea diventa un prodotto da consumare e non un percorso di crescita e di vita. Viviamo in una società che vede nel fallimento un terribile destino e una terribile colpa e in cui l’attesa, la pazienza, la fantasia e il dolore sono elementi di disturbo, se non addirittura ostacoli al successo (Galimberti). Invece avremmo tutti il diritto di non competere per forza, di fermarci, di commettere errori e persino di fallire (per un maggiore approfondimento si rimanda all’articolo “Ode a chi sa perdere – nessuno vuole essere Robin“)

Il diritto di cedere alla lentezza e alle fragilità e di deviare, eventualmente, da percorsi che sembrano stabiliti.

Proprio in questi giorni mi è tornata in mente la serie tv “Strappare lungo i bordi“ in cui Zerocalcare parla della tendenza comune di pensare che la vita sia una strada già tracciata: “perché pensavamo che la vita funzionasse così, che bastava strappare lungo i bordi, piano piano, seguire la linea tratteggiata di ciò a cui eravamo destinati e tutto avrebbe preso la forma che doveva avere.

Ma di che forma parliamo? Quanto è possibile immaginare che la vita di ognuno possa avere una forma esclusiva e unica?

E che succede se ci si accorge che ci si sta allontanando da quella linea tratteggiata? Il rischio è di iniziare a “strappare senza guardare”, vale a dire agire senza consapevolezza, sopprimendo le proprie emozioni e la propria sofferenza e quindi, automaticamente anche se stessi.

Mi veniva da pensare al peso che sentono alcuni universitari quando raccontano di realtà inventate, fatte di esami dati, sessioni superate e lauree raggiunte. Bugie di autoinganno, dunque, che partono dalla motivazione di proteggere il proprio sé dal giudizio altrui e hanno l’effetto di un “anestetico psicologico” che, però, allontana dal prendere coscienza di situazioni che potrebbero suscitare forti ansie e angosce.

Ma se da un lato c’è un contesto sociale e culturale così fortemente performativo e competitivo, si deve anche tenere conto delle fragilità personali, delle dinamiche familiari, delle storie individuali.

È fuori di dubbio, del resto che il passaggio dal liceo all’università sia uno dei più delicati. Rappresenta, infatti, una fase evolutiva importante in cui dalla vita adolescenziale si passa a quella semi-adulta.

È un periodo di scelte e responsabilità nuove che, se da un lato costituiscono una nuova sfida, dall’altro possono essere fonte di angosce profonde, soprattutto se le fragilità interiori si scontrano con le pressioni esterne. In questa nuova vita di lezioni da frequentare, sessioni da sfruttare e complessità da gestire, può emergere quindi, la paura schiacciante di non farcela, di sbagliare, di restare indietro, di deludere.

È quanto accade ad esempio, nel perfezionismo maladattivo, tratto della personalità supportato dalla nostra società performativa, che porta a pensare che un’azione non sia mai meritevole di apprezzamento e che porta a sentirsi incapaci di operare cambiamenti in linea con le proprie aspettative.

In questo quadro di nuove sfide evolutive, il ruolo della famiglia può essere centrale.

Nel corso della vita universitaria, infatti, si sperimenta spesso un’illusione di autonomia. Si è lontani da casa, soprattutto per chi vive fuori sede, ma ancora si deve “rendere conto” a mamma e papà. Non si è né del tutto indipendenti né totalmente dipendenti dalla famiglia. In pratica il processo di svincolo familiare non è sempre portato a compimento e talvolta può costituirsi come problematico (Cancrini, 2001). Nel caso di ciò che Cancrini definisce come Svincolo di Compromesso, ad esempio, l’uscita dalla famiglia è dovuto a un progetto di vita che in realtà non è stato scelto in autonomia ma che percorre una strada tracciata da altri, nella maggior parte dei casi dai genitori. In altri casi, invece, lo svincolo è solo apparente e momentaneo con la conseguenza di pesanti limitazioni nei processi di autonomia e di realizzazione personale.

Se l’obiettivo di ognuno di noi, infatti, è proprio quello di svincolarsi dal proprio nucleo familiare attraverso un processo di differenziazione del Sé, vale a dire autodefinizione e individualizzazione (Bowen, 1980), allo stesso tempo l’obiettivo per la famiglia è quello di facilitare nei propri membri questo processo (Andolfi,2010).

Più siamo differenziati, infatti, più avremo sviluppato la capacità di investire in attività orientate verso il sé, perseguendo principi e valori nel rispetto di sé stessi e meno saremo in balia di pressioni emotive con cui si mira a ottenere l’accettazione e l’approvazione altrui.

Al contrario quando il processo di differenziazione non si completa qualcosa può crollare, si possono perdere punti di riferimento, l’autostima vacilla e la sensazione di smarrimento può crescere.

Quando parliamo di università dobbiamo dunque tener conto allo stesso tempo della complessità di questa fase e del grande potenziale che rappresenta: le nuove sfide, la creazione di competenze e non di risultati, la valorizzazione delle individualità e la costruzione di un nuovo senso identitario.

Questo è possibile se i fattori culturali, relazionali e individuali si intrecciano in maniera armonica in modo da facilitare il benessere mentale e non trasformare l’università in un prodotto da consumare nel più breve tempo possibile con il massimo del risultato.

Come si può fare? Tenendo a mente che il percorso di studi sarà appagante e fonte di piacere se sostenuto dalla realizzazione di propri scopi personali e non di standard esterni. Potrebbe essere necessario sensibilizzare tutta la comunità sull’importanza del benessere psicologico e fornire concretamente spazi di supporto per intercettare gli studenti in difficoltà.

In aggiunta, forse, dovremmo cambiare il nostro metro di giudizio del successo. Dovremmo cominciare a contemplare il fallimento e l’errore non come terribili incidenti di percorso ma come parti naturale del processo. Allora sarà possibile cominciare a pensare che ognuno ha il proprio tempo, il proprio modo di procedere nel mondo e che le aspirazioni possano essere guidate dal desiderio di realizzarsi liberamente e non vincolate da una normalità che, in fondo, non ci appartiene e, il più delle volte, non ci rappresenta.

Dott.ssa Sara Raffaele

Psicologa – Riceve a Roma e a Viterbo

email. dottoressa.raffaele@gmail.com

Per Approfondire

Andolfi M., Mascellani A. (2010). Storie di adolescenza. Esperienza di terapia familiare, Raffaello Cortina.

Bowen M. (1980). Dalla famiglia all’individuo. La differenziazione del sé nel sistema familiare, Astrolabio.

Bronfenbrenner U. (1979). Ecologia dello sviluppo umano. Il Mulino.

Cancrini L., La Rosa, C. (2001). Il vaso di Pandora, Carocci editore.

Gancitano M., Colamedici A. (2018)La società della performance: come uscire dalla caverna. edizioni Tlön

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