Da Lombroso “all’ombroso”
Uomini come “strutture organizzate”per il male

“ La società prepara il crimine; il criminale lo commette.” (Henry Thomas Buckle)

Cesare Lombroso, pseudonimo di Marco Ezechia Lombroso (Verona 1835 – Torino 1909) è stato un medico, antropologo, sociologo, filosofo e giurista italiano, riconosciuto come padre ed ispiratore di ciò che sarebbe stata la moderna criminologia. L’aspetto storico della figura di Lombroso resta sicuramente come una sorta di totem, uno studioso imprescindibile nello studio dei tratti atipici dell’uomo, tanto da rendere quest’ultimo “criminale”.  

 Su questo tema Mario Canciani scrive: “Una volta mostrarono a Lombroso una foto di detenuti e gli chiesero chi fosse quello che mostrava più nettamente i caratteri del criminale. Lombroso mise il dito su una testa che stava al centro della foto, dietro agli altri. Era il cappellano. Lombroso si giustificò poi affermando che non tutti realizzano le proprie inclinazioni… «Astra inclinant, non necessitant.». Sappiamo che le teorie di Lombroso sono state superate dalle evidenze scientifiche, ma resta un aspetto residuale che per anni è stato quasi sussurrato come fosse una conferma che non prevede smentita: il criminale è diverso da noi, è riconoscibile, è qualcosa di diverso ed evidente nella sua “distanza”. 

L’organizzazione rappresenta oggi la possibilità di insediarsi e dominare i diversi contesti d’azione dell’uomo criminale, di confondersi (solo superficialmente) con l’ambiente. Organizzare significa muoversi, pianificare e ridurre al minimo il rischio di fallimento, concetto non pensabile, non ipotizzabile per questo individuo. L’organizzazione è il fulcro su cui si basa tanto la struttura di personalità dell’individuo quanto il suo modus operandi, pianificato e condiviso da un “sistema valoriale” (e in origine territoriale).

Gianluca  Lo Coco e Girolamo Lo Verso descrivono in un loro articolo “Psichiatria e pensiero mafioso. Spunti di riflessione legati ad un percorso di ricerca” un mondo antropo-psichico in cui vengono esaltati i valori maschili della forza, del coraggio, dell’onore, della virilità, della freddezza, di contro al mondo degli “sbirri”, dei poliziotti, dei giudici, delle forze dell’ordine in generale. Questa rappresentazione interna di un mondo buono formato da uomini “rispettabili” ed uno esterno malvagio è caratteristica fondante del pensiero mafioso. Fare l’infame, lo spione, con gli sbirri (cioè rivelare ai poliziotti delle cose) è la peggiore accusa nel mondo mafioso. In questa cultura psichica, come in tutti i sistemi fondamentalisti (Lo Verso, 1998, cit.) regnano dicotomie totalizzanti di pensiero, con il mondo degli affetti scisso in maniera punitiva.

Un altro aspetto caratterizzante la distinzione tra l’uomo delinquente lombrosiano ed il criminale organizzato è la distanza tra uno specifico deficit (nell’apprendimento, nelle relazioni, anatomico) del primo e l’intenzionalità del secondo, dettata da motivazioni di appartenenza più che proprie. In questo senso si osserva come la personalità dell’uomo d’onore si renda concreta come una patologia da eccessivo intenzionamento, da una rigidità di strutture (di pensiero, di affetti) e da un’intensità tale da divenire disturbante. La cultura fondamentalista prevede come nelle organizzazioni criminali non vi sia possibilità di riconoscere, di pensare l’Altro, pena una propria disgregazione simbolica e psichica (potenzialmente) anche fisica.

Una domanda sorge in modo spontaneo: un boss mafioso possiede una personalità patologica inquadrabile ad un livello clinico-diagnostico? Sia la storia che la letteratura sul campo hanno indirizzato la risposta sul cosiddetto disturbo antisociale di personalità (APA, DSM IV, 1996). Individuare un’ipotesi diagnostica per quanto importante e non distante dal vero non può, totalmente, riassumere l’insieme di elementi relativi all’identità, all’ambiente, alle relazioni reciproche che compongono il quadro.

In un’ottica psicodinamica, l’esercizio del potere è basato su una rappresentazione di sé ambivalente, una condizione che oscilla tra l’onnipotenza personale e la scarsa autostima. L’uomo d’onore si rappresenta come un essere speciale, un Dio che può uccidere o mantenere in vita l’Altro.

La “giustizia” funziona per i criminali, la “condanna” per le persone  oneste. Adelina Dokja

Nel loro articolo Lo Coco e Lo Verso sottolineano, infatti, che per questi individui “niente è più temibile del non essere considerato, dell’essere nuddo ammiscato cu’ nente” (nessuno mischiato con niente).  Gli autori proseguono sottolineando come “i killer provano raramente ansia o paura quando uccidono, sconoscono il senso di colpa, dormono bene, non fanno brutti sogni: quando diventano collaboranti di giustizia la situazione psichica cambia realmente”.

Si potrebbe vedere, con le ovvie e concrete distinzioni, un qualcosa di simile ad un’alleanza terapeutica, concreta perché non esente da negoziazioni e resistenze varie. Questo passaggio, da uomo d’onore a collaboratore (o pentito) permette una svolta verso un ideale di umanizzazione soggettiva: ora l’Altro…esiste.

La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”   G. Falcone

Per Approfondire

Bowen M. (1980). Dalla famiglia all’individuo. La differenziazione del sé nel sistema familiare, Astrolabio.

Lo Coco G., Lo Verso G. (1998), La mafia dentro: questioni psicopatologiche, Psichiatria e Psicoterapia Analitica, vol.17,n. 4.

Lo Verso G. (1998) (a cura di), La mafia dentro. Psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Franco Angeli, Milano.

Lo Verso G. (1994), Le relazioni soggettuali, Bollati Boringhieri, Torino.

Nathan T. (1996), Principi di etnopsicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino.

cura, violenza

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