Perché l’attivismo
Il 25 Novembre, ancora

Quando leggiamo notizie di attualità, spesso ci rattristiamo e sentiamo forte l’esigenza di evitare questa emozione negativa, distraendoci e pensando ad altro. La consapevolezza di quello che abbiamo appreso “purtroppo” non può essere eliminata, quindi vivremo questo tentativo di distrazione come frustrante perché inefficace.

Ricordo la sensazione davanti alla notizia del ritrovamento del corpo di Alan Kurdi, il bambino siriano naufragato durante la traversata sui precarissimi gommoni che tentano di arrivare in Italia. Cosa si poteva fare davanti a quella notizia? Tapparsi le orecchie? Girarsi dall’altra parte? Annegare nel dolore e nell’impotenza?

Il climate blues è un fenomeno codificato recentemente e riguardante soprattutto i/le giovani, che origina dalla frustrazione di fronte all’impotenza e alla percezione che le istituzioni non facciano abbastanza per contrastare il cambiamento climatico.

Forse qualcun* si sarà imbattut* nell’espressione “non è depressione, è capitalismo”, per indicare i sentimenti negativi provocati dal sistema capitalistico in cui siamo inserit3, che richiede livelli di performance e attivazione costanti e in costante crescita, impossibili da mantenere se non a prezzo del proprio benessere psicofisico. Ai tempi di Freud, il capitalismo borghese e austero provocava nevrosi. Oggi si parla di un vissuto depressivo condiviso da molt3.

Un testo della psicoterapeuta Valerie Rein edito nel 2019 intitolato “Patriarchy Stress Disorder: The invisible inner barrier to women happiness and fulfillment” (lett. Disturbo da Stress da Patriarcato: La barriera invisibile alla felicità e sentimento di completezza della donna) racconta come la consapevolezza del patriarcato con tutte le conseguenze che implica sulla possibilità della donna di avere gli stessi diritti e le stesse opportunità dell’uomo, provochi un sentimento di cronico malessere che influenza profondamente il suo benessere e, addirittura, la sua felicità.

Dunque: cosa fare?

Partendo dal presupposto che ritengo sia impossibile ignorare lo scenario nel quale siamo inserit3 (al massimo possiamo vedere, poi girarci dall’altra parte sperando di poter ignorare quanto visto, ma: è possibile vivere serenamente facendo finta di nulla davanti a quello che accade nella nostra società?Spoiler: no, non è possibile.Quindi, ancora: cosa fare?Cosa fare davanti alla rabbia, alla tristezza, al sentimento di impotenza, di frustrazione? Una risposta universale non credo che ci sia, ma in questo articolo mi piacerebbe proporre una possibile strada: l’attivismo.La parola “attivismo” ha appena 100 anni, almeno nel suo utilizzo corrente, e deriva dal verbo “essere attivo”. Un/a attivista è una persona attiva nella campagne per il cambiamento, normalmente nei problemi politici o sociali. L’attivismo è ciò che l’attivista fa, cioè, il metodo che utilizza per portare avanti il cambiamento (da una definizione del Consiglio d’Europa).L’attivismo, quando è applicato ai diritti umani, significa difendere i diritti umani ogni volta che sono minacciati o violati a qualsiasi livello. L’attivismo per i diritti umani è quindi un reagire all’ingiustizia, ai soprusi, alla violenza o alla discriminazione, e cercare di correggerli. Significa essere pront3 ad assistere e dimostrare solidarietà agli sforzi delle altre persone, combattendo per assicurare che siano trattati con rispetto e dignità, e aiutando a costruire una società più umana, egualitaria e rispettosa dei diritti (da una definizione del Consiglio d’Europa).Oggi è il 25 Novembre, la Giornata Internazionale contro la violenza sulla Donna, una ricorrenza che ricorda lo stupro e l’uccisione nel 1960 delle sorelle Mirabal, impegnate nel contrasto del regime dominicano. Uccise in quanto donne, perché avevano osato disobbedire alle regole, più o meno tacite, che richiedono un certo portamento al femminile, il ruolo stereotipato e subalterno che il patriarcato professa. Uccise come le 104 donne uccise (88 delle quali in ambito familiare e affettivo) fino al 20 Novembre solo nel 2022.

Senza dilungarmi perché il tema necessita una trattazione infinita, di seguito una piccola rassegna sulle condizioni della donna oggi.

Oggi le opportunità educative e occupazionali delle donne sono minori rispetto alla controparte maschile; le donne hanno un accesso limitato alle risorse economiche e al potere decisionale (il famoso tetto di cristallo); c’è un gender pay gap lontano dall’essere colmato; siamo continuamente espost3 alla reificazione sessuale del corpo della donna nei media; c’è un minore valore attribuito alla salute della donna (la medicina di genere è una branca della medicina che ambisce a studiare le differenze dei corpi; un esempio è la recentissima legiferazione sulla vulvodinia e nevralgia del pudendo: è forse una nuova patologia? O forse la medicina ha avuto uno sguardo filtrato con una cecità selettiva davanti ad alcune condizioni della donna?); le donne sono vulnerabili a violenze e discriminazioni di genere derivate da norme sociali non eque, così come alla vittimizzazione secondaria e istituzionale.

Cosa possiamo fare per contrastare queste condizioni inaccettabili?

La rabbia è un’emozione con un grandissimo potenziale: distruttivo o trasformativo. Un po’ come la benzina: se la rovescio sulla macchina, posso darle fuoco e distruggerla. Se la inserisco nel serbatoio, posso andare dove voglio. Dunque: usiamo la nostra rabbia sociale. Attiviamoci, non restiamo in silenzio, adopriamoci perché un cambiamento avvenga facendoci agenti attivi di questo cambiamento.

A tal proposito, domani, 26 Novembre a Roma, ci sarà la manifestazione organizzata dal collettivo Non Una di Meno, per stringersi in piazza contro la violenza sulla donna.

Dott.a Giulia Radi

Psicologa e psicoterapeuta a Perugia e Roma

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