Il falso Sé. Modellati nell’ambizione
Ognuno di noi, nel suo percorso di crescita, si è interfacciato per la prima volta in un contesto sociale diverso da quello dei propri genitori, sperimentando per la prima volta le proprie capacità relazionali all’asilo, con persone sconosciute, sino al districarsi in maniera più o meno abile nelle tante pretese sociali lavorative all’italiana. Nella scoperta di un mondo esterno che possiede valori a volte diversi da quelli famigliari, l’individuo costituisce una propria identità sociale che si fonde con l’identità personale. La creazione dell’identità rappresenta, allora, la piena consapevolezza di chi si è, delle proprie origini, dei propri stati emotivi e dei propri pensieri. Sempre più spesso, però, è comune riscontrare in molte persone, in parte anche dentro di noi, una netta scissione tra un’identità che si mostra, che si ama, a cui si crede di appartenere e una parte di sé che si reprime e che soffre, terrorizzata al sol pensiero di mostrarsi (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “l’insicurezza patologica – Ciò che non amo di me“). Si crea un falso sé, ossia un sé ideale a cui l’individuo ambisce, mettendo in pratica un processo di cambiamento dentro di sé rispetto alle proprie ideologie e comportamenti, col solo intento di convincersi di essere diventato il sé tanto ammirato: si crea, dunque, un’armatura (il falso Sé) che potrà proteggere il sé reale, percepito debole e inefficace in una determinata società.
Prendiamo ad esempio un medico alle prime armi, che ha scelto la propria professione per vocazione e per una spiccata sensibilità nell’aiutare il prossimo; nel proprio lavoro si affianca ad un luminare della medicina cinico e interessato solo al corpo del paziente (il classico dottor. House). Con il tempo il giovane medico, se non è fortemente convinto delle sue abilità empatiche come fondamentale strumento di cura, inizierà a convincersi che la giusta modalità di lavoro è quella esercitata dal suo superiore, e attraverso un processo di cambiamento dei propri atteggiamenti verso il paziente, riuscirà a costituire un falso sé funzionale per lavorare in quell’ospedale, ma disfunzionale per sé, portandolo a lungo andare ad odiare il proprio lavoro, sviluppando una sindrome da born-out. In psicoanalisi, Donald Winnicot, definisce il falso sé come una modalità patologica di sviluppo dell’identità che prende le mosse dai primissimi stati dello sviluppo infantile, laddove il bambino non trova nella madre un rispecchiamento dei suoi bisogni e desideri, ma cresce assecondando i bisogni e desideri di lei e imparando via via a fondare il proprio senso di identità nell’accondiscendere alle richieste altrui (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “Il Falso Sè – Sul sentimento di autenticità”). Senza sfociare nella psicopatologia e nei disturbi di personalità, dove il falso sé è alla base del funzionamento psichico ed è funzionale a proteggere da una profonda crisi depressiva, anche negli individui definiti “sani” è possibile riscontrare un’importante quota di falso sé che compone la propria identità in determinati aspetti di vita. Ciò avviene quando accettiamo una determinato credo o teoria come già dato, quindi imposto dall’alto, e lo indossiamo in maniera rigida; non siamo noi ad utilizzare quel credo o quella teoria per i nostri scopi e per il benessere della nostra vita, ma ci facciamo utilizzare da loro per ritrovare in essi la sicurezza del non sbagliare. Il falso sé si fonda sulla rigidità d’analisi della realtà, ossia quando riusciamo a osservare il mondo unicamente per settori, pregiudizi e teorie ben delineate, senza riuscire a metterci in discussione rispetto alla possibilità di ampliare nuove parti di noi con nuove esperienze di vita. Un esempio lo ritroviamo nel cartone animato di Aladdin, dove il povero protagonista chiede al genio di essere trasformato in principe, ottenendo il benvolere e l’acclamazione del popolo e del sultano. Con il passare del tempo inizia però un conflitto interiore dentro Aladdin, nel sentire che sta ingannando se stesso e chi ama: lui non è un principe, per il semplice motivo che non ha effettuato nessun percorso di crescita per diventarlo. Sarà proprio grazie a questa presa di consapevolezza che riuscirà a sconfiggere la sua parte sadico/narcisistica (Jafar) e riuscire ad accettare la parte di sé più vera assieme al valore che esso ne consegue (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “La funzione psicologica della fiaba – Il regno del proprio inconscio“). Questa fiaba ci consente di comprendere che è proprio grazie ad una profonda messa in discussione delle nostre ideologie e delle nostre teorie di vita che riusciremo ad accedere a quella parte di noi più vera, permettendoci di abbracciare quelle teorie di vita che tanto amiamo, dentro di noi e comprenderle nel profondo, diventando, dunque, più aperti al mondo ed alla sua emotività, accettando quel senso di integrità tra parti di sé più sensibili ed altre più coraggiose, non avendo più paura di essere scoperti dagli altri nel non avere il giusto valore, e nel non essere principi. La propria regalità si acquisisce attraverso un percorso interiore che prevede l’accettazione di Sé in ogni più piccola parte.
Dott. Dario Maggipinto
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Per Approfondire:
Winnicott D. W. Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma, 2003
AA. VV. Il pensiero di D.W. Winnicott, Armando Editore, Roma, 1982