Il ruolo del gioco nello sviluppo
da 0 a 99 anni
Da anni collaboro con un servizio scolastico, lavorando insieme ai bambini. Insieme, non con.
Dirò una cosa banale, ben chiara soprattutto ai genitori o ai professionisti dello sviluppo, nell’affermare che ogni bambino è un ottimo insegnante e un attento genitore. Un bambino ci fa sentire amati e importanti, scopre quando diciamo una bugia, ci fa rispettare quelle regole che in precedenza abbiamo dato, ci permette di cambiare prospettiva mostrandoci le cose attraverso i suoi occhi e di entrare in contatto con le sue emozioni, di viverle e di riviverne di nostre ormai dimenticate.
Un privilegio del mio lavoro è la possibilità di giocare quotidianamente insieme ai bambini: attraverso i nostri giochi, possiamo, insieme, posizionare mattoncino LEGO su mattoncino LEGO, costruendo simultaneamente i muri delle nostre identità.
Giocare è stimolante, utile, divertente e ci permette di sognare e raccontare delle favole che parlano di noi.
Quando vidi Samuel per la prima volta aveva poco meno di 4 anni.
Era un bimbo molto piccolo di corporatura, che iniziava a piangere appena il papà usciva dalla stanza, lasciandolo solo lì con me. Non era un bambino capriccioso, aveva paura e bisogno di fidarsi di un qualcuno che fino ad allora non conosceva. Rimasto solo con un’estranea, si sentiva spaesato e i primi tempi si concedeva, come fosse un rito consolatorio di passaggio, un pianto giornaliero di 5 minuti per l’abbandono non voluto, superati i quali si calmava alla mia proposta di giocare insieme.
Un giorno arrivai a scuola molto assonnata e pensierosa e nell’accogliere Samuel mi accorsi invece della sua tranquillità. Si scosse sempre nel momento del saluto al papà, ma quasi come se si accorgesse della mia poca brillantezza mattutina, quel giorno, come mai prima, fu semplice consolare il suo pianto.
Prima di iniziare a giocare, scherzai dicendo “che giornatina oggi, Samuel!”, probabilmente parlando più a me stessa che a lui. Mi guardò con i suoi occhioni increduli e con una vocina disse a voce bassa “ è una bella giornata oggi, c’è il sole”. Mi fece sorridere perché i miei pensieri da adulta mi facevano sentire come se fuori piovesse, mentre la verità era diversa dalla mia percezione. Sorridemmo insieme e iniziammo a giocare.
Quel giorno volle prendere i LEGO grandi, i super mattoni erano il suo gioco preferito. Passammo del tempo a costruire una casa bella, grande, robusta. Una volta finita, Samuel me la mise in testa a mo’di cappello. Rispondendo alle mie domande, mi disse che quella era la mia casa e che dovevo starci dentro perché non avevo l’ombrello: fuori pioveva.
Mi accorsi che quel bambino inconsapevole aveva percepito la mia tristezza e mi stava concedendo, nel suo linguaggio, un riparo sicuro. Stava mettendo in scena nient’altro che nostre emozioni. Ascoltando quel racconto mi bloccai.
Samuel dopo poco decise di cambiare gioco ed io lo seguii.
Il bambino e l’adulto, giocando insieme, creano nuovi significati condivisi ed il racconto che nasce è una co-costruzione sempre condita da elementi emozionali appartenenti ai singoli e alla dinamica relazionale. I bambini percepiscono la presenza emotiva dell’adulto e mettono in scena nel gioco i sentimenti che provano all’interno della relazione.
Quell’esperienza mise in contatto il mio vissuto emozionale con quello di Samuel; fu lui a dirmelo, per mezzo del suo unico funzionale canale comunicativo: il gioco.
Il gioco è il linguaggio che il bambino usa per vivere e comunicare paure, desideri e fantasie inconsce all’esterno. Per fare esperienza delle sue paure ha bisogno di rappresentarle concretamente davanti a sé; per renderle più sopportabile, di allontanarle in un processo di proiezione/identificazione con i giocattoli.
Il gioco è un sogno osservabile che ci fa entrare in contatto diretto con contenuti inconsci; guardando un bambino giocare, infatti, è possibile cogliere importanti connessioni con la sua realtà psichica. La scelta del gioco è significativa, così come lo sono il modo in cui il bambino gioca, tratta i giocattoli o li abbandona e la storia che viene raccontata attraverso di essi. I personaggi protagonisti del gioco sono a volte figure reali (mamma, papà..), altre volte fantasmatiche, o rappresentano esclusivamente il “campo emozionale” che si crea nello scambio e nella condivisione con l’altro giocatore.
Per crescere felice, il bambino ha bisogno di passare del tempo di qualità con i propri genitori e con le altre figure di riferimento. Giocando in un ambiente “sano” e contenitivo, impara ad elaborare conflitti e ad apprendere i primi rimedi possibili al terrore. Un ambiente “sano” è rappresentato da un caregiver disponibile al gioco che, giocando, favorisca l’attribuzione di nuovi significati alle angosce. Quando il bambino introietta l’immagine di una madre disponibile al gioco, infatti, impara a non sentirsi solo in sua assenza ed a giocare autonomamente, con i suoi amici, insieme ad un altro adulto o da solo anche in presenza della madre.
Il gioco dunque, soprattutto se libero e non strutturato, favorisce lo sviluppo di conoscenze e di competenze emotive e sociali e rappresenta una necessità nello sviluppo sano di un bambino.
In quella ed in altre occasioni, vidi Samuel divertirsi, sorridere, crescere e con il tempo imparare a comunicare consapevolmente le sue emozioni anche per mezzo del gioco. Fra noi si era creato un “campo emotivo” di condivisione, in cui lui metteva del suo ed io del mio. Avevo sempre pensato di giocare per lui, ma quel lavoro per me, era diventato divertente e molto stimolante. Mi accorgevo che anche io avevo bisogno di giocare.
Kris definì “regressioni a servizio dell’io” quei momenti, come il gioco, fondamentali per la sopravvivenza dell’io, che hanno lo scopo di mantenere l’equilibrio psichico. Sono regressioni inconsce che ci portano a ripetere delle attività o delle modalità di interazione utili alla nostra serenità. Anche da grandi abbiamo bisogno di divertirci entrando in contatto con un nostro “sé” bambino e sentirci ogni tanto in un’altra dimensione, vicina ma lontana da noi. I giochi ci permettono di scaricare lo stress, di metterci alla prova, di sorridere, di competere, di esplorare i nostri affetti, conoscere l’altro e decidere chi voler essere e quali strategie di vita abbandonare o mantenere.
Poterci mettere in gioco nell’incontro con l’altro, che sia un bambino o lo sia stato, è un privilegio da non sottovalutare.
Dott.ssa Emanuela Gamba
Per approfondire:
Ferro A., “La tecnica nella psicoanalisi infantile – il bambino e l’analista: dalla relazione al campo emotivo”, Raffaello Cortina Editore, 1992
Winnicott D.W., “Gioco e realtà”, Armando Editore, 1990
Klein M., “La psicoanalisi dei bambini”, Giunti Editore, 1988
crescere, da 0 a 99 anni, divertimento, giocare, gioco, psicologia, psicoterapia, sviluppo