La memoria autobiografica. La ricerca di un’identità

“La realtà non si forma che nella memoria.”  (Marcel Proust).

The Persistence of memory (1931) – Salvador Dalì

“Ricordo il colore del primo banco di scuola, un verde pastello, le sedie di legno marrone scuro e persino il vestito della maestra, un rosa tendente al viola…ricordo…ricordo…” Quando parliamo di memoria autobiografica ci riferiamo in generale a tutti i ricordi che una persona ha delle sue esperienze di vita. La memoria autobiografica è uno degli ambiti di studio più antichi della psicologia, perché è la funzione umana che permette di integrare tra loro i pensieri, le rappresentazioni, gli affetti, i bisogni, le intenzioni e le ambizioni dell’individuo. Nonostante una lunga storia di ricerca empirica, non esiste ad oggi un pieno consenso riguardo all’ontogenesi della memoria autobiografica, alla sua struttura e alla sua relazione con gli altri sistemi di rappresentazione dell’esperienza umana.

I ricordi sono realmente così vividi, o meglio rispecchiano sempre la realtà così come si presenta? Quante volte succede di avere memoria di un luogo e rivederlo a distanza di anni trovandolo diverso da come lo ricordavamo? Tanto da chiedersi se effettivamente la realtà appartenga di più alla nostra memoria che a ciò che ci circonda. Se non avessimo i ricordi del nostro passato saremmo come il personaggio di Leonard Shelby nel film “Memento”, che in seguito ad un trauma che gli provoca un amnesia anterograda (incapacità di memorizzare fatti avvenuti dopo il risveglio da uno stato di perdita di coscienza generalmente in seguito ad un trauma cranico o ad una malattia), è costretto a scrivere o a tatuarsi sul corpo le informazioni perché ogni 15 minuti perde la memoria. Infatti il personaggio ad un certo punto del film dice: “La memoria può cambiare la forma di una stanza, il colore di una macchina. I ricordi possono essere distorti; sono una nostra interpretazione, non sono la realtà. Sono irrilevanti rispetto ai fatti.” 

In psicologia, invece, anche un ricordo distorto ha motivo di essere tale. Non è l’oggettività dei nostri ricordi ad essere interessante, ma come vengono interpretati, elaborati e quindi rievocati perché è attraverso ciò che si forma il Sé.

L’idea del “Sé” è sorprendentemente bizzarra: sul piano intuitivo è evidente per il senso comune, ma sfugge, alla definizione da parte dei filosofi e degli psicologi più esigenti. Il meglio che sembriamo in grado di fare quando ci si chiede di definirlo è puntare il dito sulla fronte o sul petto. Eppure il Sé è moneta corrente: non c’è conversazione in cui prima o poi non venga evocato.

Sarà che dentro di noi c’è un qualche Sé essenziale che sentiamo il bisogno di verbalizzare?

La creazione del Sé avviene all’interno non meno che dall’esterno. Il suo lato interiore, è costituito dalla memoria, dai sentimenti, dalle idee, dalle credenze, dalla soggettività.

Attraverso i nostri ricordi costruiamo la nostra identità, la nostra personalità. In psicologia viene utilizzato il recupero della storia di vita dell’individuo ed in questo la memoria autobiografica gioca un ruolo centrale, non tanto per indagare le reali capacità mnestiche dell’individuo, quanto piuttosto le emozioni, le relazioni, gli affetti e tutto ciò che sommato forma la globalità dell’individuo. Lo stesso Freud fu tra i primi studiosi ad interessarsi allo studio dei ricordi autobiografici infantili e sulla relazione che questi potessero avere con la struttura psichica dell’individuo. Egli ad esempio, pose l’enfasi sul ruolo delle fantasie inconsce nella distorsione e/o ricostruzione dei ricordi, i quali potevano avere una funzione difensiva: dimenticare poteva essere un modo per rimuovere il contenuto inaccettabile di un ricordo.

Un altro interessante strumento in cui è visibile l’emergere di componenti del Sé è l’autobiografia. Autobiografia non intesa come una “registrazione”, ma come un racconto di ciò che si pensa di aver fatto, in quali situazioni, come e per quali ragioni sono soggettive. Questa sarà inevitabilmente una narrazione e la sua forma sarà significativa quanto la sua sostanza. Non importa se il racconto si conformerà a quanto possono sostenere gli eventuali testimoni dei fatti, né si è alla ricerca di contraddittorietà o verosimiglianza del racconto. Si è invece interessati a ciò che la persona ricorda di aver fatto, ai motivi per cui pensa di averlo fatto, in quali tipi di situazioni pensava di trovarsi e così via.

I presupposti che intrecciamo nel racconto della nostra vita sono profondi e praticamente senza fine. Li ritroviamo in frasi tipo: “un’infanzia difficile” o “un bambino sognatore” e il motivo per cui certe cose vengono incluse nella narrazione rimane perlopiù implicito, poiché il tacito patto con l’interlocutore che sta ascoltando prevede che questi lo immagini da sé.

Nessuna autobiografia è completa, la si può solo terminare. Nessun autobiografo può sottrarsi alla domanda: di quale Sé tratta l’autobiografia, da quale prospettiva è composta, e per chi? L’autobiografia che effettivamente scriviamo non è che una versione, un modo di rappresentarci.

Cosa si può dire in conclusione sull’arte narrativa della creazione del Sé?

Sigmund Freud osservò che ciascuno di noi somiglia alquanto ad un “cast di personaggi” di un romanzo o di una commedia. I romanzieri e i commediografi costruiscono le loro opere scomponendo il proprio cast interiore, mettendo questi personaggi in scena o sulla pagina per esplicitare le loro relazioni reciproche. Gli stessi personaggi è possibile sentirli anche nelle pagine di ogni autobiografia. 

Dott. Andrea Rossetti

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andrearossetti217@gmail.com

Per approfondire:

Bruner, J. (1992). La ricerca del significato. Bollati Boringhieri Ed.

Bruner, J. (2002). La fabbrica delle storie. Laterza Ed.

Freud, S. (1988). Il sogno. Bollati Boringhieri Ed.

“Memento” Film di Christopher Nolan, 2000, USA

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