Di vuoti e relazioni. Ognuno si salva da solo
Sappiamo bene che l’ambiente in cui cresciamo e i messaggi che riceviamo durante l’infanzia andranno a strutturare in futuro i nostri atteggiamenti, i nostri pensieri, i nostri comportamenti… la nostra personalità, insomma. Anche le fiabe e i cliché con i quali veniamo cresciuti andranno quindi a strutturare le nostre aspettative e le nostre aspirazioni sul mondo circostante.
È quindi interessante riflettere sul fatto che siamo stati cresciuti con l’idea che un giorno suonerà al citofono non il corriere col pacco di Amazon contenente l’ultimo album del gruppo indie-rock del momento, ma un anacronistico principe azzurro col mantello rosso e il cavallo bianco che ci farà indossare il decolleté perso al locale l’altra sera che calzerà alla perfezione sul nostro piede, e ci salverà da tutte le nostre miserie, dai lavori precari, dai vaccini, dal surriscaldamento globale, dalla nevrosi.
Arriverà una principessa vestita da crocerossina sexy (ma non troppo, solo nel privato che poi siamo gelosi) che ci farà mettere la testa a posto e ci salverà dalla nostra un po’ prolungata adolescenza turbolenta, dal crossfit, dalla CBD, dalla dipendenza da Netflix.
Arriverà insomma l’anima gemella, l’amore della vita, l’altra metà della mela e finalmente saremo redenti da tutti i nostri peccati e vivremo tutti felici e contenti. E tutti i nostri vuoti saranno colmati.
Nasciamo interi, veniamo spezzati in due e viviamo tutta la vita alla ricerca della nostra metà perfetta con la quale ricongiungerci, scriveva Platone nel Simposio. Nessuno si salva da solo, recitava il titolo di un romanzo di Margaret Mazzantini e omonimo film di suo marito, Sergio Castellitto. I Coldplay nel 2005 intitolavano uno dei loro più grandi successi “io ti aggiusterò” (Fix You). Insomma, “l’amore ti salva la vita”. Quante volte lo avremo sentito dire?
E il punto è che è proprio così, l’amore che riceviamo da bambini ci può salvare (o meno) la vita, perché ci insegna nel modo più incisivo, ovvero attraverso l’esperienza, cosa vuol dire amare, cosa vuol dire essere amati. E quello tendenzialmente sarà il metro che utilizzeremo in ogni relazione intima, di attaccamento (per un approfondimento si rimanda all’articolo di questa rivista “Il legame di attaccamento – L’importanza di legarsi“) negli anni a venire.
Considerando il fatto che non scegliamo né siamo responsabili del nostro passato e che ognuno di noi si scontrerà con delle mancanze (in un continuum che va da piccole disattenzioni a vera e propria trascuratezza o, addirittura, abuso) nello stile di attaccamento che ha sperimentato e quindi ereditato, o siamo tutti condannati a perpetrare le mancanze sperimentate sulla nostra pelle, oppure.
Oppure ci viene insegnato che l’amore del partner ci salverà, tapperà tutti i nostri buchi, riempirà tutti i nostri vuoti, colmerà tutte le nostre lacune, compenserà tutte le nostre mancanze, saprà renderci immuni dal dolore, ovattare le sensazioni negative, silenziare tutte le nostre vulnerabilità. Ci viene in sostanza insegnato che l’amore ci salverà da noi stessi. Perché tutte queste cose qua, i buchi, i vuoti, le lacune, le mancanze, i dolori, le sensazioni negative, le vulnerabilità, sono roba nostra, e ci vengono date in dotazione così come ci vengono date quelle spalle larghe, quelle gambe non proprio longilinee, quegli occhi poco funzionanti, quei capelli crespi, quella voce nasale, quella altezza poco alta. Ma non mi verrebbe mai in mente di pensare che il mio partner mi possa salvare dalla mia voce nasale, al massimo posso cercare di porre rimedio alla mia miopia recandomi dall’oculista! E così come sceglierò di iscrivermi in palestra a settembre per provare a snellire le mie gambe, posso rimboccarmi le maniche e scegliere deliberatamente di voler affrontare le mie vulnerabilità.
Affrontare le vulnerabilità è un lavoro sporco e complesso, che non prevede prescrizioni universali come diete, lenti a contatto, corsi in palestra. Significa aprire quel vaso di Pandora che sono le nostre emozioni, significa rompere l’esoscheletro, abbassare le difese e guardare quel che resta sotto tutta questa sovrastruttura che è l’armatura attraverso la quale ci relazioniamo con il mondo esterno. “Sono contrario alle emozioni” recitava il titolo di un celebre romanzo di De Silva, e rende l’idea delle resistenze che abbiamo nel fare i conti con i nostri veri sé.
Mi viene in mente un paziente che in seduta, durante un periodo in cui si trovava ad affrontare le lunghe e invasive terapie per una brutta malattia da cui era affetto, mi raccontò di svegliarsi ogni mattina sperando di non essere se stesso, sperando di essere in un altro corpo, in un’altra vita, sperando di avere una bacchetta magica per riavvolgere il nastro, cambiare la storia, sperando che qualcuno un giorno arrivasse a salvarlo da se stesso.
Questo desiderio regressivo è comprensibile quanto irrealistico, eppure per noi è paradossalmente più semplice accettare la visibile malattia del corpo, piuttosto che le intangibili ferite del nostro animo.
Quale è la soluzione?
Solo una, semplice, forse banale: non fare finta di niente. Non girarsi dall’altra parte, lasciando che i buchi neri interni fagocitino tutto quello che abbiamo dentro fino a diventare voragini di cui non si riesce a percepire i contorni, lasciando che l’elefante nella stanza distrugga tutti i cristalli nelle teche.
Guardare prima di tutto le nostre ferite, capire che origine hanno, che forma hanno, che peso hanno, quanto spazio occupano in noi. E, una volta analizzate, conosciute, rese familiari, faranno un po’ meno paura di prima, come una stanza buia nella quale accendo la luce.
I buchi poi non possono essere riempiti se non da noi, è nostro compito coltivare il nostro campo, e nessuno lo farà con lo stesso amore e dedizione del suo proprietario. Sarà importante mettere a maggese il campo, cioè aspettare il momento ideale per la semina, e iniziare poi a riempirlo con la nuova storia che voglio scrivere, consapevole delle coltivazioni passate che non hanno funzionato e perché. Cresceranno allora i miei frutti e saranno i più saporiti mai assaggiati, perchè saranno i preziosi frutti del mio lavoro. Un po’ come funziona per la tecnica giapponese del Kintsugi che valorizza l’oggetto rotto rendendolo ancor più prezioso, riempendo d’oro la crepa che lo percorre.
Ognuno si salva da solo, si aggiusta da solo quindi. E quando finalmente l’oggetto è riparato, può svolgere la sua funzione; quando finalmente il campo è fiorito, si possono raccoglierne i frutti. Quando finalmente ho imparato a conoscere i miei vuoti e li ho riempiti di me, quando ho imparato ad essere solo, allora sono davvero pronto per una relazione (sana) con l’altro (per un approfondimento si rimanda agli articoli di questa rivista “La dipendenza affettiva – Vuoti di vita da colmare” e “L’arte della relazione – La capacità di essere soli“).
Una volta un amico mi disse, avevo una compagna che era pronta per un progetto di vita con me, ma io non avevo ancora fatto i conti con il mio passato. Dopo una lunga terapia, oggi mi sento al punto zero, sono pronto. Che è poi quello che la poetessa indiana Rupi Kaur recita nella sua poesia:
non voglio averti
per riempire i vuoti in me
voglio essere piena già di mio
voglio essere così completa
da poter illuminare una città intera
e dopo
voglio averti
perché noi due messi insieme
potremmo incendiarla
Dott. ssa Giulia Radi
Riceve su appuntamento a Perugia
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Per Approfondire
Bateson G (1977) Verso un’ecologia della mente
De Silva D (2011) Sono contrario alle emozioni
Kaur R (2017) Milk & Honey
Mazzantini M (2011) Nessuno si salva da solo
Winnicott DW (1965) Sviluppo affettivo e ambiente