Quando ci svegliamo la mattina, per qualche minuto ci troviamo in quella terra di mezzo, come su una nuvola, dove i sogni sono ancora lì con noi tra il mondo interno e quello esterno, tra il sonno e la veglia. Lentamente ci sentiamo sempre più a contatto con la terra, le immagini oniriche evaporano e se non diamo loro un minimo di attenzione spesso sembrano svanire nell’aria come un fumo; ma non è proprio così, i sogni non scompaiono mai del tutto, anzi alcuni sono destinati a ripetersi (in tal caso son legati ad eventi traumatici).
Sempre più spesso nell’ambito degli interventi psicologici si sente parlare di Pet Therapy. Ma cosa s’intende effettivamente quando si utilizza questo termine? La Pet Therapyè un intervento, frequentemente utilizzato all’interno di un progetto terapeutico più ampio, caratterizzato dalla presenza di un terapeuta, di un animale con un suo conduttore e di un paziente. Spesso si prediligono i cani, ma anche altri animali vengono scelti in quest’ambito, come per esempio i cavalli.
La nascita di questo tipo di intervento si fa risalire agli anni ’50, quando lo psicoterapeuta Levinson ebbe modo di osservare casualmente che la presenza di un animale domestico in stanza di terapia poteva avere degli effetti positivi sul lavoro terapeutico. Più nello specifico, Levinson raccontò di avere in cura da tempo un bambino con autismo che presentava particolari resistenze al lavoro e che un giorno il piccolo s’imbatté nel suo cane. Quest’incontro si rivelò prezioso: non solo il suo paziente iniziò a venire più volentieri in terapia, ma la presenza del cane durante le sedute migliorò l’andamento della terapia stessa. Levinson introdusse così l’idea che l’animale poteva avere una funzione di co-terapeuta, riconoscendogli un ruolo particolarmente importante.
Negli anni, diversi studiosi hanno cercato di dare una spiegazione agli effetti benèfici che si possono osservare in alcuni casi in seguito a un percorso di Pet Therapy: la relazioneche s’instaura tra il paziente e l’animale sembra essere la variabile vincente. Dietro la parola relazione si nasconde un mondo, nel senso che questo termine va inteso come la possibilità che ha il paziente di conoscere e di esplorare parti di sé con l’altro in modo unico, in quanto ogni relazione è a sé, anche quella con un amico a quattro zampe!
La presenza stabile dell’animale per il paziente può restituire un senso di sicurezza e di contenimento emotivo utile per la formazione dell’alleanza terapeutica inizialmente e in seguito per il sostegno nell’esplorazione delle aree più fragili del sé. Nella relazione con un animale si scoprono anche i vissuti legati all’accudimento e quindi si stimola la capacità di comprendere le esigenze dell’altro e l’empatia. Donare calore all’altro può restituire un senso positivo di sé e abbassare il vissuto di stati ansiosi e depressivi. Anche il gioco è una dimensione della relazione con l’animale che spesso si esplora. In particolare con i cani vi è la possibilità di stabilire insieme delle regole e di giocare muovendosi nello spazio e stimolando complessi processi cognitivi e creativi.
Inoltre, con i pazienti più piccoli s’innesca spesso un meccanismo di identificazione con l’animale che permette al bambino di parlare di alcuni vissuti attraverso la figura del cane, utilizzando anche delle favole. Questo meccanismo è di enorme importanza in quanto in alcuni casi per il bambino è importante riuscire a mettere in campo il proprio vissuto e a simbolizzarlo.
Più in generale, la fisicità caratterizzante la relazione con un animale riporta a una dimensione fondamentale del rapporto, quella del contatto e del calore a partire dal corpo che ha un linguaggio unico per ogni specie animale, ma che nella cerchia dei mammiferi ha degli aspetti comuni tra tutti gli esemplari. La possibilità di stare con un mammifero di un’altra specie spinge a riscoprire il linguaggio non verbale e quindi a stare in contatto con le proprie emozioni. La possibilità di stare con l’altro senza l’utilizzo del linguaggio verbale può avere un potenziale enorme slegando il soggetto da sovrastrutture legate alla parola in grado di innescare velocemente stati difensivi.
Stare con l’altro è l’evento più naturale e complesso del mondo e la relazione è lo strumento più potente che abbiamo per rivoluzionare chi siamo. In questo senso gli animali sanno cambiare le nostre vite.
Tra milioni di persone ci si sceglie nell’amore come per magia. C’è qualcosa dell’altro che ad un certo punto ci colpisce in modo diverso da tutto il resto, qualcosa che risuona dentro di noi e che ci tiene agganciati all’altro con i pensieri e le emozioni. È davvero magia? Dipende da cosa s’intende per magia. Forse sì, fatto sta che la scelta del partner a volte non è così casuale né mossa da semplici variabili esterne, ma da oceani interni che s’incontrano.
Il lutto è la reazione affettiva alla perdita di una persona amata che sconvolge tutta la nostra vita. Chi amavamo dava un senso al nostro mondo, la sua perdita è quindi anche esperienza di perdita del senso stesso del mondo, è un vero e proprio terremoto. Per l’inconscio l’esperienza della morte non può avere un senso né può essere accettabile: “come può una persona per me importante scomparire da questo mondo senza che il mondo cambi con la sua assenza?”. Solo a partire da questa premessa è possibile addentrarsi nella comprensione delle reazioni psichiche alla morte di una persona cara.
Le risposte individuali al lutto solitamente oscillano tra il polo maniacale e quello melanconico per poi, in alcuni casi, riuscire ad attraversare l’esperienza della perdita attraverso un lavoro complesso legato alle memorie traumatiche e alla relazione con l’altro. La risposta maniacale al lutto è caratterizzata dalla centralità del meccanismo di difesa della negazione: il soggetto nega in modo ostinato il carattere indigeribile dell’evento della morte. È una risposta anestetica. Dietro questa reazione, infatti, si nasconde il terrore dell’esperienza del vuoto, negando il ricordo e il dolore attraverso un lavoro di spostamento di energie prima investite sull’oggetto perduto ora su qualcos’altro. Una realtà assoluta del lavoro sul lutto è quella della necessità della reazione di autentico dolore psichico inconsolabile per un tempo significativo. Senza l’esperienza effettiva del dolore non vi è un lavoro sul lutto, ma un dolore strozzato con conseguenze sulla vita del soggetto spesso nella direzione del corpo, legate per esempio a disturbi di somatizzazione che si manifestano anche a distanza di anni o nei casi più complessi alla manifestazione di malattie auto-immuni.
Negli ultimi anni i media si sono focalizzati sul Disturbo da Deficit dell’Attenzione e dell’Iperattività (DDAI), per tutta una serie di motivazioni, che vanno da alcune concettualizzazioni opposte del disturbo (da una parte l’approccio neurobiologico tutto centrato sulla fisiopatologia e dall’altra l’approccio socio-antropologico dove i sintomi sono una conseguenza di un sistema malfunzionante) ai dibattiti sulle variopinte proposte di intervento (prima l’introduzione degli psico-farmaci nei bambini con i sintomi più accentuati e più recentemente in Germania l’utilizzo di giubbotti imbottiti di sabbia per farli “stare buoni” in classe).
Oggi il DDAI risulta essere uno dei motivi più frequenti per cui un bambino viene portato in un centro clinico ed è quindi importante continuare a parlarne e a fare una certa chiarezza in merito alla questione.
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