La Diagnosi
Come dare un nome alle cose
Una volta si chiamavano matti, direbbe un vecchio. Una volta si chiamavano vivaci e capricciosi, direbbe ancora un vecchio.
E a me verrebbe da rispondere che ora si potrebbe parlare di persone affette da schizofrenia e di bambini iperattivi.
Le parole cambiano il senso delle cose, producono delle conseguenze sulle opinioni (per un approfondimento si rimanda all’articolo “Stereotipi e pregiudizi – una rosa se non si chiamasse rosa” della rivista del mese di Giugno 2015). Forse anche la parola schizofrenico incute un senso di timore e incomprensibilità, ma è lontana dall’alone di giudizio e credenze popolari che circondano invece la parola matto.
Nel vocabolario online Treccani alla voce “matto” troviamo scritto “stupido, stolto, privo di discernimento”. Ma anche “persona bizzarra, stravagante o spensieratamente allegra”.
È una definizione abbastanza vaga, che potrebbe indicare in realtà diverse tipologie di persone.
Alla voce “schizofrenico” invece troviamo scritto “affetto da schizofrenia” e alla voce “schizofrenia” possiamo leggere “psicosi dissociativa caratterizzata da un processo di disgregazione (dissociazione) della personalità psichica; si manifesta con gravi disturbi dell’attività affettiva e del comportamento che possono assumere forme diverse, distinte in s. semplice, s. catatonica, s. ebefrenica, s. parafrenica, s. paranoide.”. Anche senza essere professionisti della salute mentale, si intuisce che si tratta di un disturbo psichico.
Siamo quindi nell’ambito della psichiatria e della psicologia. Lo schizofrenico sarà strano o fastidioso, ma ha un disturbo e quindi ha diritto ad essere curato.
Il matto è strano e fastidioso, ma, credenza popolare, in fin dei conti sta bene così. Non cambierà mai e allora meglio compatirlo e allontanarlo quando diventa pericoloso.
Due parole diverse riflettono due impostazioni di pensiero diverse. Inoltre, a loro volta, possono diffondere idee divergenti e causare comportamenti anche diametralmente opposti. Ad esempio l’interesse e l’attenzione per un malato, oppure lo spavento o il fastidio nei confronti di un matto.
Dare un nome alle cose è quindi un compito assai importante, ma affatto facile.
In psichiatria e in psicologia si può usare la parola “diagnosi” proprio per parlare di questo arduo compito.
Lo psichiatra e lo psicologo si trovano di fronte ad una persona e, in base a quanto possono osservare direttamente o indirettamente nel suo comportamento, nei suoi pensieri e nelle sue parole, devono riuscire a comprendere quale sia il quadro sintomatologico e quindi il disturbo di cui è affetta.
Viene dato un nome ad una realtà, ad una situazione vissuta dall’individuo, e partendo da questo nome è possibile capire quale trattamento è opportuno effettuare.
Il processo diagnostico permette allo psicologo di comprendere il funzionamento psicologico dell’individuo nei suoi punti di forza e di debolezza. Viene posta attenzione alla sua soggettività ovvero al modo specifico e personale in cui vive la propria situazione.
Ma allo stesso tempo viene individuato un nome e, più precisamente, delle parole che possano restituire, in maniera più chiara e sintetica possibile, un senso sia allo psicologo che al paziente.
Il bambino “capriccioso” viene valutato nel suo funzionamento psicologico, cognitivo, affettivo e comportamentale, considerando anche il suo contesto di sviluppo.
Così magari ci si potrà accorgere che i suoi capricci vengono sistematicamente messi in atto quando il padre si allontana per delle trasferte di lavoro. Potremmo quindi parlare di ansia da separazione e non più di capricci. Questo potrà restituire alla famiglia e al bambino stesso un senso diverso sulla loro situazione. L’alone di cattiveria, giudizio e conseguente punizione potrà essere spazzato via e l’atmosfera familiare non sarà più tesa. I genitori non saranno più arrabbiati per i comportamenti del figlio, ma li osserveranno con occhi nuovi e le loro risposte saranno diverse, alla luce di una nuova comprensione della situazione.
Ma questo probabilmente è quello che succede quando il processo diagnostico riesce positivamente.
Esiste infatti la possibilità, che spesso si traduce in realtà, che la diagnosi venga svuotata del proprio senso e della propria utilità esplicativa, diventando così una semplice etichetta.
Allora il paziente che la riceve continua a non capire niente della propria situazione. Può solamente aggiungere un nome sterile che andrà magari a sostituirsi a quelli usati precedentemente. Potrà smettere di dire “sono un tipo apatico” e iniziare a definirsi depresso. Ma quanto avrà realmente capito della propria depressione?
La diagnosi è uno strumento allo stesso tempo utile e pericoloso.
Il compito più difficile per lo psicologo è quello di riuscire a cogliere la specificità del paziente e al contempo collocarlo in categorie generali. Dire “lei è depresso” significa infatti collocare una persona all’interno di un preciso quadro diagnostico, ma non è possibile fare ciò dimenticando di individuare le specifiche caratteristiche della specifica depressione di quel soggetto. Se viene data più importanza alla necessità di “incasellare” il paziente, allora il processo diagnostico sarà fallito, perché non avrà restituito al paziente un senso comprensibile della propria realtà.
Per questo motivo in molti ambienti la diagnosi non gode di grande simpatia, venendo considerata come un marchio, un’etichetta, uno stigma. Ciò non è di poca rilevanza soprattutto quando si tratta di psicologia evolutiva. È difficile convincere un genitore ad occuparsi di un figlio iperattivo o depresso, se la comunicazione della diagnosi viene vissuta come un giudizio etichettante.
Ciò che è importante però capire è che una cattiva diagnosi diventa un’etichetta, mentre una buona diagnosi, che rispetti la soggettività del paziente, può aiutare a chiarire dubbi e a placare molte ansie.
Il processo diagnostico, però, può facilmente divenire un ostacolo alla terapia quando rappresenta in primis il tentativo dello psicologo di rispondere al proprio bisogno di dare senso e significato ai sintomi del paziente seguendo uno schema prestabilito di cui si ha piena conoscenza. Il rischio, oltre quello di una diagnosi affrettata, è anche quello di “innamorarsene” tanto da potere osservare nel paziente, da lì in avanti, solo quelle caratteristiche a conferma della propria ipotesi diagnostica.
Effettuare una buona diagnosi è come guardare la realtà con il giusto paio di occhiali: permette di osservare bene, in maniera chiara e limpida, e di capire cosa si ha di fronte. Portare per tutta la vita gli stessi occhiali concentrandosi sulla montatura rigida e sicura, senza aver bisogno di adattare costantemente le lenti alle condizioni “climatiche” esterne, può allontanare dal compito di dare realmente il giusto nome alle cose.
Dott. Roberto Zucchini
Per approfondire:
Dazzi, N., Lingiardi, V., Gazzillo, F. (2009). La diagnosi in psicologia clinica. Milano: Raffaello Cortina Editore.