Psicologia del rito funebre
Un passaggio per i vivi


La morte di Papa Francesco, oltre a scuotere la Chiesa Cattolica e tutti i fedeli, ha messo in luce, come in ogni lutto della nostra vita, la natura mortale dell’essere umano e l’angoscia mortifera che la comunità dei vivi si ritrova a vivere davanti al decesso di una persona cara. Da millenni, le culture di tutto il mondo hanno sviluppato riti e cerimonie per affrontare l’angoscia di morte. In antichità, ai tempi del nomadismo, ogni volta che una persona della tribù veniva a mancare si seppelliva la persona deceduta e tutta la comunità fuggiva da quel luogo, per timore di essere “contagiati” dalla morte.
I riti funebri non sono solo un modo per onorare chi è venuto a mancare, ma svolgono anche funzioni psicologiche profonde e universali. L’antropologo Arnold van Gennep, nei suoi studi sui riti di passaggio, evidenziò come la morte rappresenti un passaggio non solo per chi muore, ma anche per i vivi, che devono riorganizzare simbolicamente la propria comunità (van Gennep, 1909).
I riti funebri servono quindi a ristabilire un ordine dopo la rottura prodotta dalla morte. Costituiscono un momento di coesione sociale, in cui il gruppo si raccoglie, riconosce la perdita e riafferma la propria identità collettiva. Il rituale, come sottolineato da Victor Turner (1969), agisce come un “momento liminale” in cui i partecipanti, temporaneamente separati dai loro ruoli sociali quotidiani, rielaborano le proprie esperienze di vita e morte.
Dal punto di vista antropologico, i riti funebri sono tra le pratiche più antiche dell’umanità. Le prime sepolture rituali risalgono a oltre 100.000 anni fa, e sono considerate uno dei segnali della nascita del pensiero simbolico. In ogni società, i funerali rispecchiano la visione del mondo, della vita e della morte.
Nelle culture cristiane, il funerale è spesso un momento solenne con preghiere e canti che rievocano il concetto di resurrezione e speranza in Dio, in molte tradizioni buddiste, si pongono enfasi sulla reincarnazione e sulla liberazione dal ciclo delle rinascite mentre in alcune tribù dell’Africa occidentale celebrano il decesso con danze e feste, interpretandolo come un passaggio a una nuova forma di esistenza.
Nonostante la varietà di forme, tutti i riti funebri condividono elementi comuni: separazione del defunto dal mondo dei vivi, accompagnamento nell’aldilà, e riorganizzazione del gruppo sociale.
Oltre al valore culturale, i funerali rispondono a bisogni psicologici profondi. Il lutto è un’esperienza destabilizzante, che rompe l’equilibrio emotivo dell’individuo e della comunità. I riti collettivi aiutano ad elaborare e superare le crisi individuali e della comunità, prime fra tutte la morte di una persona che rievoca costantemente nella comunità di vivi la mortalità di ognuno di noi, ed i riti aiutano a contenere e simbolizzarne l’angoscia.
I riti funebri assolvono, dunque, a varie funzioni psicologiche:
Dare senso alla perdita: I simboli e le parole rituali offrono una cornice narrativa che aiuta a comprendere e accettare la morte, permette un passaggio dalla concretezza destabilizzante del corpo deceduto alla rappresentazione vitalizzante dell’anima, rappresentazione del ricordo della persona cara.
Espressione del dolore: I funerali permettono di condividere il dolore in modo socialmente accettato, riducendo il rischio di isolamento emotivo. Il rito stesso diviene un contenitore strutturato dove è possibile “impazzire” dal dolore, lasciarsi andare e affidarsi ad un gruppo che ti sostiene mediante il processo rituale. Questo rituale aiuta a “esorcizzare” la morte, trasformando un evento traumatico in un processo condiviso che facilita l’accettazione e la comprensione della fine della vita.
Transizione e continuità: Qualsiasi rito segna una transizione (dal ruolo di “marito”, “madre”, “adulto”) e al contempo confermano la continuità della vita sociale. Il rito funebre ne è ovviamente la massima espressione, potremmo dire che tutti gli altri riti di passaggio (matrimonio, iniziazione ecc) si fondano sempre sulla struttura del rito funebre, dove parti di sé muoiono e c’è un passaggio verso una nuova fase di vita.
Rafforzamento dei legami: Nei momenti di lutto, la comunità si ricompatta, offrendo sostegno emotivo e pratico. Le cerimonie funebri permettono una liberazione emotiva, aiutando i partecipanti a superare il dolore attraverso l’espressione collettiva delle emozioni.
Nel mondo contemporaneo, i riti funebri si stanno trasformando. L’individualizzazione delle pratiche, la secolarizzazione e l’uso della tecnologia (come le commemorazioni online o i funerali trasmessi in streaming) modificano profondamente la ritualità tradizionale.
In alcuni contesti occidentali, si scelgono cerimonie laiche, personalizzate, che riflettano la personalità del defunto più che la dottrina religiosa. In Giappone, si diffondono i robot preti per cerimonie buddhiste. In Italia, aumentano le “stanze del commiato” nei cimiteri per saluti privati e raccolti.
Queste innovazioni, sebbene apparentemente lontane dalla tradizione, rispondono comunque ai medesimi bisogni antropologici e psicologici: rendere significativo il distacco, affrontare il dolore e ricostruire il senso del vivere.
I riti funebri, nella loro infinita varietà, sono specchio dell’anima umana. Essi parlano della nostra paura della fine, ma anche del nostro desiderio di memoria, appartenenza e significato. Che si tratti di un canto, di una preghiera, di un abbraccio o di una lacrima condivisa, ogni gesto rituale è un ponte tra chi resta e chi se ne va — e, forse, tra l’umano e l’eterno.
Per Approfondire
Durkheim, É. (1912). Le forme élémentaires de la vie religieuse. Paris: Alcan.
Kübler-Ross, E. (1969). On Death and Dying. New York: Macmillan.
McMahon, M. T. (1998). Death and Dying: A Sociological Interpretation. Cambridge University Press.
Rosenblatt, P. C. (2000). Grief and Loss Across the Lifespan: A Biographical Perspective. Springer Publishing Company.
Turner, V. (1969). The Ritual Process: Structure and Anti-Structure. Chicago: Aldine Publishing.
Van Gennep, A. (1909). Les rites de passage. Paris: Édition Albin Michel.
Dott. Dario Maggipinto