Idealismo Pervertito
Uccidere per (ig)nobile ideale

“Se credi in un ideale, non sei tu a possederlo, è lui che ti possiede.”

Raymond Chandler

Compiere il male non è qualcosa di semplice: i buoni lo sognano, (“solo”) i cattivi lo fanno (per citare un famoso testo di criminologia). La maggior parte delle persone infatti, nell’età formativa, sembra entrare in contatto con un insieme di norme condivise a scuola come in famiglia, imparando ed introiettando una serie di diritti e soprattutto di doveri su ciò che sia lecito o non lecito fare.

Questi sistemi educativi pongono il bambino -come l’adolescente- di fronte ad una prima sfida: pensare che si può forse aggirare il problema, trovare una soluzione alternativa a quelle proposte o imposte, anche se questo comporterà non poche inibizioni.  Spostando il focus verso l’età adulta, A. Bandura, ad esempio, fra le strategie di “disingaggio morale” include la cosiddetta “giustificazione morale”, strategia per cui una certa condotta trova una sua scusante nell’aver obbedito a motivazioni moralmente elevate. Qui l’aspetto paradossale: Ad un crimine compiuto per un ideale superiore a quelli comunemente accolti, si attribuirà un significato inteso come scusabile, se non addirittura degno di encomio. In queste righe si intravede il perimetro dell’idealismo pervertito. Due termini chiave da comprendere: idealismo e perversione.

Un esempio impossibile da dimenticare (anche se i tentativi di negarne l’esistenza non sono stati pochi) è quello dei totalitarismi presenti in Germania, Italia, Russia. Milioni di persone uccise convincendo i perpetratori che le loro azioni, purché brutali fossero compiute per una buona e “giusta” causa: la sopravvivenza del proprio popolo inteso come etnia e razza superiore, minacciata dall’Altro, dal diverso. Nel suo testo “Introduzione alla criminologia” I. Merzagora riporta una lettera che un giovane soldato scriveva nel 1915 alla madre: “La guerra ci ha potentemente mostrato come la nostra vita avesse un senso del tutto diverso da quello di svolgersi secondo le normali vie di un’esistenza familiare e borghese. Essa appartiene a un finale grande e sacro. Questo fine noi lo conosciamo è stato insufflato in noi dall’eternità, e ci conduce verso qualcosa di grande, di eterno. Lo presentiamo. Dio forgia oggi grandi traguardi per la storia mondiale e noi siamo gli eletti, lo strumento eletto”.

Nelle ultime righe della lettera sembrano quasi riecheggiare le convinzioni complottiste che mirano alla ricerca di capri espiatori, “quell’indignazione alla rovescia” citata da Manzoni. Se questi fanatici agiscono – a loro dire – per un bene superiore, in nome di un loro Dio, appare immediatamente comprensibile come sia molto complesso fermarli: sicuramente non li fermerà il rimorso. Sempre nel suo testo “Introduzione alla criminologia” la Dott.ssa Merzagora sottolinea come il secondo termine citato, la perversione, non sia da confondere con la psicopatia, parola abusata anche nel campo del terrorismo.

Se da un lato le caratteristiche più evidenti della psicopatia consistono nella mancanza di empatia e nella incapacità di identificazione, si ricorda come i terroristi appaiano sì sordi alle sofferenze delle proprie vittime, ma certamente non indifferenti a quelle del proprio gruppo di appartenenza. La scelta suicida del kamikaze non appare infatti spiegabile nell’esclusiva chiave psicopatologica, legando il suicidio al fallimento, alla depressione, alla malattia mentale. La morte come gesto compiuto nella convinzione che sia di aiuto per la sopravvivenza del proprio gruppo, assume il senso non di pazzia, ma di estrema generosità, di eroismo, di altruismo. Un altruismo (chiaramente) patologico.

In tal senso l’annientamento altrui è inteso come la doverosa difesa del proprio gruppo sociale verso coloro che ne minano (?) la sicurezza e l’esistenza stessa: Un gesto da leggersi in chiave pro-sociale piuttosto che antisociale? Si corre il rischio di attribuire a queste persone connotati quasi fumettistici o caricaturali, come se le stragi o gli stermini fossero compiuti solo da generali tedeschi o sovietici sempre in uniforme, da soldati nipponici o giovani islamici reclutati da un’ideologia trasmessa finemente. Le cose non sono mai così semplici ed anche coloro che indossarono un camice in nome di scienza, di salute e benessere del prossimo agirono in nome di un idealismo pervertito. Il controantropomorfismo fu materia (e compito) dei medici, ben lontani dagli ideali di quell’Ippocrate da cui trarre insegnamento. Esempi di altruismo non patologico compaiono comunque, anche in epoche terribili, specialmente in condizioni in cui queste dimostrazioni potevano valere il prezzo della propria esistenza. Da ricordare il caso di una psichiatra francese, Adélaide Hautval, vissuta nel periodo del regime totalitario tedesco. Al Dottor Helmut Wirth, che la esortava a collaborare agli esperimenti (di sostituzione etnica) dicendole: “Ma non vedete che queste persone sono diverse da voi?”, rispose: “In questo campo molte persone sono diverse da me, per esempio lei stesso”.

Come suggerisce la Prof.ssa Merzagora “altrismo” o “altruismo”, una sola vocale fa molta differenza.  

Dott. Gianluca Rossini

Psicologo e Psicoterapeuta a Roma

(+39) 3661378814; gianlucarossini.psicologo@gmail.com

Per Approfondire

  • Marzagora, I. (2023), “Introduzione alla criminologia”
  • Marzagora, I. (2019), “La normalità del male”
  • Simon, R. (2013), “I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno”
  • Arendt, H. (1963), “La banalità del male”

psicologia, relazione, violenza

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