Ode a Chi sa Perdere
“Nessuno vuole essere Robin”
Da bambini pensiamo di essere invincibili.
Da grandi sogniamo di tornare bambini per sentirci nuovamente invincibili.
Da bambini viviamo nei cartoni animati o insieme ai nostri giocattoli avventure da supereroi.
Da grandi bramiamo le uscite al cinema per rivivere avventure da supereroi.
Marvel, DC e simili infestano costantemente le sale cinematografiche con nuovi film, nuove saghe che hanno come protagonisti i superpoteri di uomini, alieni o esseri invincibili. Sono film che hanno un successo incredibile perché permettono al nostro “io”, attraverso un processo inconsapevole di identificazione con i personaggi, di regredire ad uno stato bambino di onnipotenza.
È vero: anche i Supereroi hanno dei punti deboli, pensiamo a Superman e alla sua Criptonite, ma sono dei limiti che non conducono mai realmente alla sconfitta. Fanno cadere, ma è la grandiosità del supereroe a permettergli di rialzarsi e rivendicare sempre la sua invincibilità.
Nei film, chi deve costantemente confrontarsi con i propri limiti e con traumatici fallimenti sono le figure di contorno al supereroe; sono i personaggi come Robin.
“Nessuno vuole essere Robin”, la nuova canzone di Cesare Cremonini, parla del rifiuto sociale di fare i conti con i propri limiti.
Nella modernità, tutti sogniamo una vita da Batman. Tutti sogniamo di riuscire a superare i nostri limiti e le nostre sofferenze, di combattere i “crimini” della nostra vita ed averne sempre la meglio, di riuscire ad annullare, sovrastare, smettere di sentire il nostro dolore. Sogniamo di sentirci sempre vincenti, senza accorgerci di quanto siano illusorie le fantasie di sovraumanità.
Al contempo, un umano e perdente Robin ci genera un sentimento di tenerezza o di fastidido, non di certo di ammirazione; non di certo di desiderio.
Eppure, c’è qualcosa di molto magico in Robin che in superficie sfugge ai più. Robin sa perdere.
È solo la spalla di un vincente. Arriva sempre secondo e gli va bene così. In ogni avventura sa che probabilmente cadrà e che dovrà rialzarsi. Non ha vergogna a riprovarci, a rimettersi in gioco. Non ha paura di chiedere aiuto per rialzarsi, anzi sa chiedere aiuto.
Non è invincibile e ne appare consapevole e sereno. Il suo personaggio è, dunque, un elogio ai limiti e al fallimento come elemento formativo di crescita.
“Il nostro, è il tempo dei corpi e dei pensieri costantemente in gara”.
(Massimo Recalcati)
Nei tempi moderni si allontana socialmente l’esperienza della sconfitta. Si vive nell’angoscia di dover costantemente dimostrare a sè e agli altri di essere un determinato Batman, negando quella parte interiore da Robin.
Il fallimento ha, infatti, assunto il valore di un tabù e rappresenta un’esperienza da evitare a tutti i costi. In una dimensione di costante competizione che segue un nuovo principio, al di là del piacere e della realtà, che viene definito “principio di prestazione”, si fa di tutto per mostrare solo la propria identità da vincenti.
Aleggia socialmente un visione alterata del valore del limite.
La funzione paterna, non esclusivamente delegata al padre (secondo Lacan “qualunque cosa” può porre in esercizio la funzione paterna) ha a che vedere con il concetto di limite.
Il compito del paterno è sempre duplice: introdurre i “no!”, le regole, delineando gli errori e le possibilità di fallimento e, al tempo stesso, insegnare (attraverso un buon esempio, più che con le parole) ad accrescere il proprio desiderio di vivere (Per maggiore approfondimento si rimanda agli articoli Il padre – Un’identità evaporata in questo nostro tempo e Legami di Attaccamento – Oltre l’amore di un padre ).
I genitori della modernità, però, sperimentano l’angoscia dilagante di non essere amati dai propri figli e, accecati da tale angoscia, perdono di vista la stella delle proprie funzioni. Per essere riconosciuti meritevoli di amore, si mostrano estremamente accoglienti, molto inclini a dire “sì!”, arrivando a delegare le proprie responsabilità educative. Spesso nella crescita si sostituiscono ai propri figli, rimuovendo gli ostacoli senza offrirgli il giusto tempo per farne esperienza da soli; l’intento è sempre ridurne la frustrazione e sentirsi genitori più buoni e più amabili. È socialmente condiviso, inoltre, il desiderio di vedere i propri figli senza difetti: i genitori si impegnano per disegnare un futuro perfetto, intriso di aspettative elevate e di investimenti narcisistici sui figli; si costruiscono idee di figli ideali con vite ideali e gli insuccessi vengono sempre meno previsti e tollerati.
Oggigiorno vi è un rifiuto sociale condiviso di misurarsi con i limiti. Il “sì!” genitoriale perpetuo, come l’evitamento delle “cadute” nello sviluppo possono condurre l’adolescente e il futuro adulto, verso il perverso diniego dei propri limiti, dunque verso un’immagine grandiosa di sé che, prima o poi, nel corso della vita si scontrerà brutalmente con la realtà del fallimento.
Un compito che abbiamo (tutti, in primis le professioni d’aiuto) è proprio scardinare il tabù sul fallimento, elogiando l’opportunità delle sconfitte. Chi fallisce, sin da piccolo impara che può rompersi e riaggiustarsi: più sarà abituato a cadere, meno profonda sarà la ferita generata dai fallimenti futuri. L’esperienza del fallimento è, dunque, una conquista perché allontana le aspettative del bambino interiore onnipotente e permette di fare i conti con il senso di una vita terrena, non sovrumana.
Ogni fallimento porta con sé un dolore, da questo si rifugge. Un senso di profonda tristezza, un senso di ingiustizia, rabbia, disgusto, ansia… sono sensazioni necessarie per riuscire a rinunciare alle fantasie infantili di invincibilità e crescere. Non c’è crescita senza l’incontro e lo scontro con il proprio limite. (Per maggiori approfondimenti si rimanda all’articolo L’arte del fallimento – crescere grazie ai limiti)
Ci scontriamo con un rifiuto dei propri limiti e della propria “fallibilità” quando incontriamo persone che soffrono di depressione ad un livello nevrotico ( per maggiori approfondimenti si rimanda agli articoli La depressione – Un viaggio tra perdite e assenze e La depressione – La crosta di una ferita interna)
Chi è depresso si preserva dall’incontro con l’insuccesso, si ritira nel suo dolore per evitare di fare esperienza di vissuti intollerabili, presumibilmente già sperimentati, o ricorre ad una maniacalità difensiva attraverso la ricerca di esperienze estreme, ad alto impatto emotivo. Il vissuto depressivo porta, dunque, con sé il rifiuto nei confronti dei propri limiti.
In un’ottica di cura, è necessario fallire, fare esperienza dei propri limiti, riconoscerli, elogiarli e accettarli perchè la “sopravvivenza psichica” avviene solo quando si ammette il rischio di poter fallire.
Quando si riconosce la bellezza di essere Robin.
Dott. ssa Emanuela Gamba
Riceve su appuntamento a Roma e Formia (LT)
(+39) 389 2404480 – emanuela.gamba@libero.it
Per Approfondire
Recalcati. M. “Elogio del fallimento – Conversazioni su anoressie e disagio della giovinezza”. Edizioni Erickson
Lualdi M. “L’importanza di essere secondi. Storie di eroismi e non solo. ” Nomos Edizioni
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