La violenza sulle donne. “Il sesso debole”, invenzione di una società patriarcale
Durante il periodo dell’università mi è capitato di lavorare in un centro di pronta accoglienza per donne con minori in qualità di operatore sociale. Un luogo nato per rispondere, con accoglienza immediata, all’urgenza del bisogno e alle esigenze di protezione e di aiuto a donne singole e a madri con figli minori. Questa struttura rappresenta un rifugio da situazioni di disagio sociale, economico e in alcuni casi di violenza domestica. Ricordo che il mio primo turno fu di notte: ero agitato, poiché mi ero preparato psicologicamente al fatto di trovarmi in un ambiente triste, dove la tensione si sarebbe avvertita nell’aria. Arrivai alle 20:00 e cominciai a salire i gradini che conducevano all’ingresso del centro, che era situato al primo piano di uno stabile.
Quando giunsi fuori dalla porta, feci un bel respiro ed entrai. La scena che mi si presentò davanti mi lasciò a bocca aperta: erano tutti a tavola a cenare, in un’atmosfera festosa e allegra; sei bambini di età compresa tra i 2 e i 9 anni saltarono letteralmente giù dalla sedia e mi vennero incontro per abbracciarmi e farmi mille domande: “come ti chiami tu?”, “quanti anni hai?”, “resti con noi stasera?”. Senza nemmeno avermi mai visto erano così affettuosi, espansivi…solo in seguito ragionai sul fatto che ero l’unico operatore uomo a lavorare lì e che questo aveva probabilmente provocato in loro quello stato di eccitazione e stupore. Le mamme mi offrirono una fetta di torta cucinata da loro in occasione del compleanno di una bimba che stavano festeggiando e mi proposero di sedermi a tavola, accettai volentieri e mi fecero sentire proprio come a casa!
Purtroppo avrei voluto vederli sempre sereni come quella sera ed io e le mie colleghe ci adoperavamo in ogni modo affinché lo fossero, ma sono situazioni molto delicate ed i momenti di tensione non mancavano. Come nel caso di M. una donna italiana fuggita insieme alla sua bambina di un anno dalle violenze del marito, il quale però non volendo rinunciare al dominio psicologico nei confronti della moglie, raggiunto dopo anni ed anni di aggressioni e umiliazioni, continuava a cercarla e a tempestarla di telefonate, facendola vivere in un continuo stato di agitazione e tensione. Questa è una delle tante storie che durante quell’anno ebbi modo di conoscere e che mi fecero capire quanto estesa fosse questa piaga della violenza domestica, mi portarono a volermi documentare di più su tale argomento.
La violenza contro le donne, da sempre esistita, è un problema sollevato solo a partire dalla fine degli anni ’60 negli Stati Uniti dal movimento femminista, accolto in seguito dalla ricerca accademica, e infine legittimato dagli organi politici nazionali e internazionali. Prima del movimento femminista, il fenomeno non era considerato socialmente rilevante! I Rifugi per donne maltrattate, come quelli che esistono adesso, cominciarono a sorgere solamente dagli anni ’70 in poi in risposta all’attivazione del movimento femminista. In realtà esistevano già nel 1500 in molte città, accogliendo donne il cui matrimonio non era andato a buon fine e che non potevano restare a casa a subire le violenze del marito. La differenza a quell’epoca risiedeva nel fatto che quel tipo di strutture, religiose e laiche, anche svolgendo un indubbio ruolo di assistenza, accanto alla simpatia per l’infelicità della donna, le attribuivano comunque la responsabilità per non essere stata capace di avere un matrimonio “corretto”, esortandola a pentirsi per riacquistare la moralità perduta. Si trattava della risposta di una società patriarcale al problema, che aveva lo scopo di far sì che la violenza rimanesse un fatto privato, che fosse concepita come un fatto privato, da non essere esposto al pubblico; l’obiettivo, dal punto di vista sociale, era preservare la sacralità della famiglia e l’onore dei mariti. Sebbene dalla fine degl’anni ’60 ad oggi qualcosa sta cambiando, molto c’è ancora da fare! Per molti aspetti, questa società pone le sue fondamenta, la sua struttura millenaria in una concezione patriarcale. Per esempio, solo da poco è stato consentito alle donne l’accesso ad ambiti considerati da sempre prerogative maschili, anche se ancora non a tutti. Per non parlare del controllo delle donne sulla propria sessualità: io personalmente tramite il mio lavoro sono venuto a conoscenza di situazioni familiari in cui la donna subisce pressioni continue dai suoi genitori per portare avanti un matrimonio infelice al fine di non creare lo scandalo di un divorzio e se ciò non bastasse, a soddisfare comunque le esigenze sessuali del marito, e stiamo parlando del 2015 non del 1500! Si potrebbero portare altri mille esempi, ma il punto è che l’unico modo di affrontare il problema socialmente sia attraverso l’informazione e il sostegno istituzionale.
A tutto questo c’è da aggiungere un altro aspetto: una componente psicologica che subentra spesso nelle situazioni di violenza domestica. Una cosa ricordo mi colpì particolarmente, mentre lavoravo al centro: vedere come anche dopo anni di violenze subite, queste donne non riuscissero a spezzare il legame nei confronti dell’uomo che le aveva maltrattate. Non riuscivo a capacitarmene! Questo perché ignoravo cosa avviene a livello psicologico: la violenza subita, quando è quotidiana, familiare, abituale, pian piano diventa normale si cronicizza e colui che la subisce sviluppa tolleranza, mette in atto strategie di adattamento che possono addirittura condurre ad autocolpevolizzarsi e all’emarginazione sociale. Tutto ciò comporta la difficoltà della vittima anche solo di concepire l’idea di denunciare l’abuso ed anche quando si è raggiunto quel traguardo vi è la difficoltà di dover riconfigurare una situazione in qualche modo psicologicamente strutturata per cui il rischio di ritorno nella relazione violenta appare molto alto. È per questo che nelle strutture come i centri antiviolenza è importante l’integrazione del lavoro di diverse figure professionali tra le quali psicologi, operatori sociali e assistenti sociali ed è importante fornire servizi di sostegno per un periodo successivo all’uscita della donna dal centro, poiché aumenta la probabilità di restare fuori dalla violenza. Si dice che ogni esperienza lavorativa sia importante nella formazione professionale, per quanto mi riguarda non fu solo a livello professionale, ma anche umano e morale. Ogni volta che ricordo i momenti passati lì mi vengono in mente le ospiti del centro, donne che portavano sulle spalle due responsabilità enormi: riuscire a superare un momento così difficile e contemporaneamente preservare i figli da tale peso, facendogli condurre una vita serena…e questo sarebbe il “sesso debole”!
Dott. Andrea Rossetti
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Per approfondire:
Langher V., Ricci M.E. (2009). Violenza contro le donne servizi sociali centri antiviolenza. Un approccio psicologico clinico. Roma: Edizioni Psicologia.
Romito, P. (2005). Un silenzio assordante. La violenza occulta su donne e minori. Milano: Franco Angeli.