L’Obesità
Il peso dell’anima nel film The Whale

Il cinema ha il potere di trasformare storie personali in riflessioni universali sul senso della vita e The Whale (2022) di Darren Aronofsky lo fa con un’onestà disarmante. Tratto dall’opera teatrale di Samuel D. Hunter, dipinge la vita di Charlie, un insegnante di scrittura, omosessuale, schiacciato da un corpo che diventa metafora di un’anima in frantumi. Mentre cerca di riconquistare il rapporto con la figlia Ellie, Charlie affronta non solo il declino fisico, ma un labirinto di colpa, lutti e solitudine in un lento processo di autodistruzione.
Il film è un ritratto necessario della complessità umana, reso indimenticabile dalla magistrale performance di Brendan Fraser che porta in scena un personaggio complesso, fragile e maestoso che, come una balena arenata, canta la propria agonia finale.
The Whale trasforma l’obesità in un racconto viscerale su come il dolore interiore possa cristallizzarsi nella carne, prendendo il controllo sul corpo, e costringe a farsi domande esistenziali.
Quanto il giudizio sugli altr* è una proiezione delle nostre paure?
Quanto siamo pront* a riconoscere che, sotto strati di grasso o di sarcasmo, si cela una profonda sofferenza e non un vizio capitale?
Spesso ridotta socialmente a un fallimento morale, l’obesità è in realtà un groviglio di eredità genetiche, pressioni sociali e ferite emotive. The Whale strappa via questa maschera di superficialità: il corpo di Charlie non è il risultato di una scelta, ma l’epilogo di un trauma. La morte del partner e l’abbandono della famiglia a causa del suo coming out lo hanno spinto a usare il cibo come anestetico, trasformando il suo fisico in un monumento al dolore. Aronofsky non regala pietismi. Charlie non è un eroe tragico, né una vittima passiva. È un uomo che lotta contro se stesso, diviso tra la voglia di redimersi e la paura di affrontare il vuoto che ha cercato di riempire con ogni boccone.
La sua obesità non è un difetto, ma un sintomo: un grido muto che chiede di essere ascoltato.
Ogni pasto nel film diventa un atto performativo. Quando Charlie divora cibo spazzatura, non sta cedendo alla gola, sta recitando un rituale di autodistruzione. Le sue abbuffate sono preghiere, richieste di aiuto, un tentativo disperato di comunicare ciò che le parole non possono. Il cibo diventa un traduttore di emozioni: il dolce placa la colpa, il salato ricorda il pianto represso, il grasso avvolge come un abbraccio desiderato.
Questa relazione tossica con il cibo riflette una verità scomoda: spesso, ciò e come mangiamo racconta chi siamo più dei nostri discorsi. “Dimmi cosa e come mangi e ti dirò chi sei” qualcuno diceva. Charlie attraverso il suo mangiare ci parla di sé: non sceglie di morire direttamente, sceglie di sopravvivere infliggendosi la colpa; così, l’unico modo in cui si concede di vivere è affondare nel cibo e nel proprio corpo.
L’appartamento di Charlie, la location in cui si svolge tutto il film, è un microcosmo claustrofobico, specchio della sua gabbia interiore. Le pareti strette e la luce fioca amplificano il senso di reclusione, mentre i pochi personaggi che lo visitano—la figlia ribelle, l’ex moglie rancorosa, l’amica infermiera—diventano specchi delle sue paure. Ellie, con la sua rabbia tagliente, incarna il rifiuto di una generazione che vede nell’obesità pura debolezza e l’odio verso le vulnerabilità. Mary, l’ex moglie, è un promemoria vivente dei fallimenti passati. Solo Liz, l’amica, riesce a vedere oltre la carne: non a caso, è l’unica che non lo giudica, ma neppure lo salva.
In questo equilibrio fragile, il film mostra come lo stigma sociale non ferisca solo con le parole, ma costruisca muri invisibili.
La relazione con Ellie è il cuore pulsante della storia. Charlie non cerca il perdono, vuole lasciare un’impronta, una prova del suo amore prima che il corpo ceda. Le sue lezioni di scrittura alla figlia diventano metafore di questa battaglia: insegnare a Ellie a scrivere con verità è l’ultimo tentativo di trasmetterle un’eredità diversa dalla sua sofferenza, di lasciarle un elmento vitale di sé.
La redenzione, però, qui, non è un finale hollywoodiano, ma un atto imperfetto, contraddittorio. Charlie sa di non poter riscattare il passato, ma sceglie comunque di amare, anche se questo amore assume la forma di un addio e non è possibile fermare il processo di autodistruzione.
The Whale non è una lezione di medicina o un manifesto sociale. È una lettera d’amore scritta con cicatrici, un invito a sostare nella sofferenza.
In un mondo di corpi curati e felicità ostentate sui social, Charlie ci ricorda che la verità abita nelle crepe, nei gesti goffi, nelle imperfezioni che cerchiamo di nascondere. Il film non chiede pietà, ma presenza e forse per questo è indispensabile: trasforma chi guarda non in un* giudice, ma in un* testimone.
Ogni corpo ha una storia e, a volte, quella storia è così pesante da non dover essere portata da sol*.
Dott.ssa Emanuela Gamba
Psicologa, Psicoterapeuta. Riceve a Roma (zona Prati)
tel. 389.2404480 – mail. emanuela.gamba@libero.it
Per Approfondire
The Whale, film del 2022 di Darren Aronofsky
Lo Coco G., Zanna V. “Psicologia dell’obesità: Dalla diagnosi al trattamento”
Dalle Grave R. “Obesità e disturbi dell’alimentazione: Psicopatologia e trattamento”
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