Il corpo
Tra simbolo e parola
Donna con mani incrociate, vista di schiena- Egon Schiele
Egon Schiele, pittore austriaco vissuto agli inizi del Novecento, racconta la poetica sottesa alle proprie opere attraverso la rappresentazione del corpo; dipinto come torbido, caotico, espressione di desiderio e di caducità della vita. Attraverso forme scomposte e incerte descrive il movimento dinamico di un corpo, contenitore di un’interiorità tormentata, la cui unica pretesa risulta essere l’esistere. Un’ esistenza senza spazio e senza tempo, le ambientazioni sfumano, l’età dei soggetti appare secondaria. Il corpo in questo senso sembra essere il veicolo di qualcosa di inespresso, che trova difficilmente rivelazione mediante la parola. Ciò però non lo rende privo del significato più profondo che custodisce; nel coacervo di emozioni e sensazioni, che tali raffigurazioni suggestionano nello spettatore, domina il senso di ineffabilità circa un nucleo emotivo magmatico. La rappresentazione del corpo in tale paradigma artistico, può rimandare a quello che nel campo psicologico risulta essere un corpo trascurato all’interno delle relazioni primarie e che si fa, per questo, emblema di tutte le sue contraddizioni affettive.
Quando si parla di traumi evolutivi si ha a che fare con tutte quelle rotture avvenute all’interno delle esperienze di reciprocità, che non hanno permesso l’adeguato sviluppo dei sistemi di risposta emotiva: neurofisiologico, comportamentale-espressivo, cognitivo-esperienziale. Senza questi il soggetto si vede sfornito della possibilità di poter tradurre le emozioni in sentimenti, di poterle elaborare, modulare e verbalizzare con l’ambiente esterno. Si delinea così una disconnessione tra i livelli fisiologici e comportamentali e la capacità di usare le emozioni come sistemi motivazionali, dando luogo ad una disregolazione emotiva.
All’interno del contesto di accudimento primario, a cui ci si riferisce in termini di attaccamento, il trauma incide nella misura in cui il bambino, alla ricerca di aiuto e conforto di fronte alle esperienze emotivamente impattanti, trova nel caregiver risposte spaventate e spaventanti, che si traducono di fatto nell’indisponibilità alla modulazione e all’elaborazione di quanto da lui richiesto. In tale cornice, quest’ultimo, per fronteggiare gli stimoli conflittuali, potrà ricorrere abitualmente alla dissociazione patologica dove il contatto con la realtà si poggia sull’utilizzo di regolatori esterni, come ad esempio comportamenti compulsivi e addiction.
Ciò che non può essere adeguatamente simbolizzato rimane intrappolato nel corpo, senza essere verbalizzato, sfociando spesso nell’alessitimia, intesa come la difficoltà di elaborare ed individuare gli affetti. Le emozioni e le sensazioni che non trovano voce, si manifestano quindi attraverso il corpo, che viene attaccato, fendendo la continuità tra passato e presente. Questo accade soprattutto in adolescenza, quando il corpo si trova ad affrontare tutte le trasformazioni puberali, che portano all’emergere del corpo sessuato e dove l’individuo deve confrontarsi necessariamente con le frontiere del tempo, rese manifeste dai mutamenti fisici. Il corpo, tempio di un’identità in definizione, risulta iperinvestito affettivamente e diventa bersaglio di agiti non pensati. La dissociazione diventa quindi la porta d’accesso a comportamenti a rischio, dove spingere il corpo al limite sembra essere l’unico modo per sentirsi. Autoinfliggersi dolore, attraverso i morsi della fame o i tagli sulla pelle, provoca sensazioni vive, che illudono l’adolescente di poter arginare o puntellare il vuoto che costantemente lo domina. In un regime autarchico l’adolescente sente di poter governare se stesso, accontentandosi di un corpo danneggiato come bussola, senza credere di avere necessità dell’Altro, perché visto e vissuto, sulla base delle rappresentazioni primarie, come persecutorio e irraggiungibile.
Dare senso a tali comportamenti regolatori e ripartire dalle sensazioni ricercate ed esperite, rappresenta il primo tassello all’interno di un intervento terapeutico allo scopo di potersi riappropriare delle emozioni considerate intollerabili, di modularle, pensarle e verbalizzarle in un contesto protetto e di cura. Il trattamento terapeutico in questo senso si fa carico del compito di integrare quelli che Wilma Bucci, nella sua Teoria del Codice Multiplo, ha definito come i tre canali che permettono la processazione delle informazioni e il successivo sviluppo di rappresentazioni interne. I tre livelli delineati sono: il modo subsimbolico non verbale, il modo simbolico non verbale ed il modo simbolico verbale.
Il primo riguarda tutti quegli stimoli (sentimenti, informazioni motori e sensoriali) che vengono processati in “parallelo”, il secondo si riferisce alle rappresentazioni mentali che non possono essere rese in parola e il terzo riguarda invece quei contenuti relativi al mondo interno che hanno la possibilità di essere comunicati all’ esterno.
Attraverso la connessione di queste tre dimensioni, nel trattamento terapeutico, si può permettere la simbolizzazione di esperienze dissociate subsimboliche così che il corpo possa vedersi scagionato dal duro ruolo di custodia e mezzo di espressione di dolori insostenibili, riappropriandosi della propria dimensione all’interno dell’esistere.
Per approfondire:
– Caretti V, Creparo G, Ragonese N, Schimmenti A. (2005) Disregolazione affettiva, trauma e dissociazione in un gruppo non clinico di adolescenti. Una prospettiva evolutiva. Infanzia e adolescenza vol. 4. n.3
-Lancini M, Cirillo L, Scodeggio T, Zanella T. (2020) L’adolescente, psicopatologia e psicoterapia evolutiva. Raffaello Cortina Editore
– https://www.psychomedia.it/pm/answer/psychosoma/bucci.htm
Dott.ssa Valentina Merola
Psicologa a Roma
email: vale.merola@hotmail.it
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