Madri che uccidono: l’infanticidio in nomine matris
Psicologia forense, criminologia, natalità
“Una madre darebbe la sua stessa vita per il proprio bambino”. Spesso si ascolta questa frase giudicandola così veritiera e certa che non si chiedono, a differenza di altri presunti assiomi, spiegazioni e prove in merito. Giusto così, proprio perché ciò che è naturale pare ovvio, le dimostrazioni così ricche e presenti da risultare inutili. Innumerevoli esempi nella storia, nella letteratura, nella cronaca quotidiana hanno permesso di instillare una granitica certezza: una madre può solo amare il proprio bambino e morire con lui e per lui.
Un atteggiamento diametralmente opposto si riscontra quando, per stesso dovere d’informazione, si è costretti a leggere di madri che uccidono i propri figli. Orrore, orrore in purezza. Ogni schema precostituito sulla totale bontà delle madri sembra più fragile, uno specchio rotto che tiene uniti i suoi mille pezzi sotto l’incantesimo di un “no, non è possibile”. Pur restii ad ammettere che ciò accada per motivazioni tanto diverse quanto concrete, non si può negare come “una madre può dare la vita e può anche toglierla”. Un nome su tutti è quello di Medea, vero e proprio classico di Euripide; una donna che, per vendetta e dopo aver reciso ogni vincolo parentale e morale considerato sacro, uccide i figli avuti dalla relazione con l’eroe Giasone. Secondo alcuni studiosi come I. Merzagora “il figlicidio di Medea si pone dunque come la realizzazione allucinatoria del desiderio di possesso totale dei propri figli, come se fossero generati per partenogenesi, estromettendo il padre: sono suoi al punto da dare ma anche da togliere a essi la vita, rientrando così in loro pieno possesso”.
Un tema così complesso richiede un vocabolario preciso. Si intende infatti per figlicidio l’uccisione del figlio e per neonaticidio l’uccisione del figlio appena nato. In quest’ultimo caso si osservano, spesso, “sentimenti di ostilità e di estraneità nella madre, che percepisce il neonato ancora come oggetto, parte del proprio corpo e quindi nella propria piena disponibilità, che necessita di un certo periodo di tempo per raggiungere una compiuta maturazione affettiva nei suoi confronti e per essere investita di quell’istinto materno che appare piuttosto sentimento materno, quindi non solo fatto biologico”. Diverso appare invece l’infanticidio, un reato previsto dall’art. 578 c.p. e che richiama condizioni particolari. Superando la domanda che porta a chiedersi perché quest’ultima condizione meriti un autonomo titolo di reato, nel suo “Introduzione alla criminologia” la Dott.ssa Merzagora riassume una serie di tipologie, situazioni e motivazioni che rappresentano un continuum che va dall’assenza di patologia alla più grave tra quelle osservate.
- Nell’atto impulsivo delle madri che sono solite maltrattare i figli non vi è un vero progetto omicida, quanto una evoluzione piuttosto infausta della buttered child syndrome, un agìto impulsivo in risposta a pianti o urla del bimbo. Non sono lontani i casi di uccisione per brutalità di madri infastidite dal pianto o dalle esigenze del bambino.
- Nell’agire omissivo delle madri passive e negligenti nel ruolo materno si è al cospetto di madri incapaci di affrontare i compiti della maternità relativi alle necessità vitali del figlio.
- Le madri che uccidono i figli non voluti sono coloro per le quali il figlio rievoca momenti di abbandono, magari violenza sessuale, o particolari difficoltà concrete ed esistenziali.
- Le madri possono uccidere per motivi di convenienza o pressione sociale e d’onore, questi ultimi, si spera, ormai scomparsi, ma relativamente frequenti in tempi in cui la maternità in nubilato era stigmatizzata e problematica dal punto di vista economico e sociale. La presenza in Italia di donne provenienti da altri Paesi in cui vi sono ancora credenze relative all’onore, potrebbero, in tal senso, far riemergere il fenomeno.
- Tra i motivi sociali, o forse meglio ideologici, alcuni annoverano i casi di madri, ma anche di padri, che aderendo a sette religiose che prescrivono di evitare trasfusioni o medicinali, lasciano che i loro figli muoiano piuttosto che ricorrere a cure mediche che potrebbero salvarli. Il caso più noto è quello dei Testimoni di Geova, ma in USA è particolarmente diffusa la setta denominata First Church of Christ Scientist che interdice qualunque medicinale.
La realtà è, neanche a dirlo, più complessa, a partire dalla ben nota depressione post-partum fino alle cosiddette psicosi puerperali. Sempre legate a grave depressione, ma non così strettamente e temporalmente connesse all’evento del parto, sono le situazioni di quelle madri che desiderano uccidersi ed uccidono anche il figlio (suicidio allargato), delle madri che uccidono il figlio perché pensano di salvarlo (figlicidio altruistico), delle madri che uccidono il figlio per non farlo soffrire (omicidio pietatis causa o omicidio compassionevole quando motivato dal desiderio di liberarsi dal “fardello del figlio malato”). Si riportano anche i casi di figlicidio pietatis causa commesso dalle madri per sottrarre figli agli orrori della guerra e alle probabili torture, come accaduto in Bosnia.
Concludendo si potrebbe pensare, tralasciando le questioni giuridiche ed etiche legate al discorso, quanto quella figura descritta da Winnicott, quella madre “sufficientemente” buona non sia invulnerabile, inesauribile e che possa trovarsi a dover essere qualcosa in più, pur pensando se stessa e il figlio …come qualcosa “in meno”.
“Nessuno stato è così simile alla pazzia da un lato, e al divino dall’altro quanto l’essere incinta. La madre è raddoppiata, poi divisa a metà e mai più sarà intera”. Erica Jong
Dott. Gianluca Rossini
Psicologo Psicoterapeuta a Roma
tel. 3661378814 – mail. gianlucarossini.psicologo@gmail.com
Per Approfondire
- Nivoli G. Carlo. (2002) “Medea tra noi. Le madri che uccidono il proprio figlio”, Ed. Carocci
- Merzagora I. (2003) “I demoni del focolare. Madri e mogli che uccidono”, Ed. Centro Scientifico
- Merzagora I. (2023)“Introduzione alla criminologia” , Ed. Cortina
- Euripide, Di Venedetto V. (2013) “Medea. Testo greco a fronte”, Ed. Bur
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