Deficit empatico e maltrattamento. Lo scacco relazionale
Gli studi volti ad indagare la natura, le cause e gli effetti del maltrattamento hanno riscontrato nella personalità del maltrattante la presenza ricorsiva di un deficit empatico. Tutto ciò si traduce in una insufficiente partecipazione emotiva al dolore inflitto attraverso le condotte aggressive, da cui si origina una scarsa consapevolezza dell’agito violento unita ad una minimizzazione della responsabilità circa il medesimo e le sue dirette conseguenze.
Il soggetto maltrattante sarebbe dunque scarsamente propenso a provare pietà.
Studi neurobiologici attribuiscono questo deficit empatico a fattori di natura prettamente organica, quali una disfunzione dell’amigdala e un’alterazione di zone cerebrali come la corteccia ventromediale, la corteccia prefrontale e il lobo temporale, oltre ad una disfunzione delle strutture limbiche e paralimbiche (Singer, 2006).
Ma questa sorta di “cecità empatica”, anziché costituire una predisposizione biologica o una caratteristica innata ed immutabile, può mostrarsi il prodotto di un’infanzia affettivamente deprivata, in seguito alla quale il soggetto ha sviluppato impulsi aggressivi, esperienze traumatiche, sensazioni persecutorie e di pericolo dalle quali ha appreso a difendersi con l’attacco.
Fonagy (2001) parla dell’empatia come del frutto di una capacità riflessiva sviluppata con il supporto della responsività affettiva materna, nelle prime fasi della vita.
Proprio questa capacità di riflettere emotivamente sul Sé e sull’altro porterebbe allo sviluppo della mentalizzazione, grazie alla quale è possibile intendere se stessi e gli altri in termini di stati mentali, intenzionali, emotivi.
Se la mentalizzazione si mostra la struttura portante dell’accessibilità emotiva e della risonanza empatica, ipotizzare un collegamento tra il comportamento violento e un deficit mentalizzante si rivela dunque opportuno, ove non necessario.
Il deficit di empatia come conseguenza di un vissuto infantile deprivante
L’empatia è la capacità di percepire la vita intrapsichica di un altro, di riprodurre internamente i suoi stati d’animo e i suoi vissuti emotivi. Il bambino comincia a svilupparla intorno ai 3-4 anni di età, grazie anche all’atteggiamento responsivo di una madre capace di percepire i suoi bisogni e di soddisfarli in maniera adattiva. Proprio grazie alla sintonizzazione affettiva derivata da un atteggiamento materno attendibile il bambino sarà in grado di percepirsi come un oggetto mentale nella stessa mente della madre, e in questo riconoscimento intersoggettivo del Sé potrà fondare le basi di una capacità emotiva accessibile, comunicabile e simbolizzata.
In caso di maltrattamento tale capacità non potrà essere sviluppata: il bambino non può riconoscersi nello stato mentale del genitore che lo maltratta, perché questo lo costringerebbe a colludere con l’immagine di un Sé rifiutato dagli stessi soggetti dei quali anela la vicinanza affettiva (Fonagy, 2002). Ciò lo costringe a tenere una distanza protettiva dallo stato mentale del caregiver laddove avrebbe bisogno della sua prossimità costante ed autentica, nonché ad accettare la visione di un Sé alieno – quello imposto dal maltrattamento genitoriale- che si rivela causa scatenante di deficit emotivi, cognitivi, relazionali.
Il bambino, incapace di conoscere ed interpretare la reale natura dei vissuti colpevolizzanti di cui diviene preda, crescerà come un adulto a sua volta incapace di accedere empaticamente alle proprie e alle altrui emozioni, e allo stesso modo di comunicarle in maniera funzionale.
L’unico modo che avrà per sfuggire i propri stati emotivi traumatici, incomprensibili e non comunicabili sarà dunque quello di “agirli” tramite una condotta violenta eterodiretta, attuata con funzione proiettiva e catartica di un disagio interiore che è impossibile controllare altrimenti. Al contempo, la cecità emotiva causata dal deficit di mentalizzazione farà sì che le sofferenze inflitte alla vittima non riceveranno alcuna valutazione di stigma da parte del maltrattante, che si sentirà così legittimato a reiterarne l’attuazione.
Il deficit di mentalizzazione e l’agito aggressivo in rapporto di causa –effetto: La violenza come tentativo di controllo dell’angoscia
Il maltrattamento diventa, per il soggetto non mentalizzante, la modalità controllo di un Sé alieno e persecutore, ma anche l’occasione per riattualizzare vissuti traumatici mai rielaborati e dominare l’angoscia che questo gli provoca.
Nel caso del maltrattamento perpetrato all’interno della coppia v’è da aggiungere come l’uomo non accetti l’alterità della donna; egli ne disconosce l’autonomia e l’indipendenza, talvolta la stessa soggettività, rendendola un mero oggetto- Sé sul quale proiettare ciò che di maligno e distruttivo lo perseguita.
L’agito violento si scatena ogni volta in cui l’uomo teme di perdere il controllo su di lei, ovvero quando inizia a vederla come persona capace di autonomia e realizzazione: allora, sentendosi vulnerabile e abbandonato, può adottare delle strategie presimboliche di tipo fisico, basate sull’azione, con le quali cerca di placare un’angoscia abbandonica intrisa di narcisismo.
Agire le emozioni e gli impulsi consente all’uomo violento di sperimentare, dopo le stesse, un senso di pace interiore, un calo di tensione, il ripristino di una Gestalt intrapsichica che lo conduce in uno stato di rinnovati tranquillità e controllo. Per limitare la condotta maltrattante è dunque necessario spezzare il legame patologico tra l’agito violento e le conseguenti sensazioni di benessere che ne divengono il rinforzo positivo e il principale fattore di mantenimento.
La psicoterapia mentalizzante: Il metodo naming and shaming di Clulow
Una strategia terapeutica messa a punto nel Regno Unito dallo psicoanalista Christopher Clulow (2008;2009), pone il proprio focus nel raggiungimento della capacità riflessiva attraverso la collaborazione attiva e consapevole di entrambi i soggetti coinvolti nella violenza relazionale.
Si tratta del NAMING AND SHAMING. La denominazione non è casuale: il maltrattante e la vittima, all’interno delle singole sedute, sono infatti chiamati a riconoscere l’agito violento rispettivamente perpetrato e subito, e a conferire allo stesso un nome al fine precipuo di riconoscerne la natura riprovevole.
Denominare l’aggressività equivale a dare alla stessa un’identità, una collocazione oggettiva e realistica, ma aiuta anche i partner, compreso quello maltrattato, a riflettere “adattivamente” sulla violenza. Inoltre, riconoscere esplicitamente la scorrettezza dei comportamenti violenti porta ad un’ammissione responsabile del comportamento aggressivo al di là di minimizzazioni o negazioni difensive, e consente di far chiarezza anche sulla responsabilità del maltrattamento che, specie nei contesti di violenza domestica, viene collusivamente attribuita alla vittima.
Dopo aver riconosciuto e denominato la violenza all’interno del rapporto il maltrattante viene gradualmente inserito in una dimensione di vergogna verso il Sé aggressivo, che in un secondo momento verrà tramutata in comprensione empatica nei confronti della vittima, consapevolezza dei propri errori e desiderio di ravvedimento.
A questa importante presa di coscienza segue il dissolvimento dell’identificazione proiettiva e dell’idealizzazione sulle quali il maltrattante aveva impostato la relazione, investendo la partner del compito irrealistico di controllare le sue ansie persecutorie, rielaborare i suoi vissuti traumatici e appagare le sue esigenze affettive, divenendo al contempo il capro espiatorio di una violenza persecutoria che proprio il deficit di capacità riflessiva aveva fatto apparire incolpevole.
Per Approfondire:
Allen, J.G., Fonagy, P. Bateman, A. (2009) La mentalizzazione nella pratica clinica, Raffaello Cortina, Milano, 2010
Bonura, M.L. ( 2016) Che genere di violenza: Conoscere e affrontare la violenza contro le donne, Erickson, Trento
Clulow, c. (2008) Naming and Shaming in attachment-based psychotherapy with couple. International Review of Psychoanalysis of Couple and Family, 2.)
Clulow, C. (2009) Sex, Attachment and Couple Psychotherapy: Psychoanalytic Perspectives, Karnac edition, UK
Fonagy P. (2001) Uomini che esercitano violenza sulle donne: una lettura alla luce della teoria dell’attaccamento. In Fonagy P. e Target M., Attaccamento e funzione riflessiva. Milano, Cortina
Singer, T. (2006) The neuronal basis and ontogeny of empathy and mind reading: Review of literature and implications for future research, in “Neuroscience and biobehavioral Review, 30, pp. 855-863.