Il “mostro”. Fame, sete e desideri
Sono cattivo perchè sono disperato. Non sono forse schivato e odiato da tutti gli uomini? Tu, il mio creatore, mi faresti a pezzi e ne esulteresti; pensa a questo e dimmi: perchè dovrei mostrare pietà per l’uomo più di quanta lui non ne mostri per me? (…)
Un giorno che ero oppresso dal freddo, trovai un fuoco lasciato acceso da alcuni vagabondi, e mi sentii invadere di gioia al calore che da esso proveniva. Nel mio giubilo, infilai la mano fra le ceneri ardenti, ma subito la ritrassi con un grido di dolore.
Strano, pensai, che la stessa causa potesse provocare effetti così opposti (…)
Ah, fossi rimasto per sempre nel mio bosco, ignorante e senza altre sensazioni che non fossero fame, sete e caldo!
La conoscenza ha una ben strana natura! Aderisce alla mente, dopo averla conquistata, come un lichene sulla roccia. Qualche volta provavo il desiderio di scrollarmi di dosso ogni pensiero e sentimento; ma imparai che c’è solo un modo per superare la sensazione di dolore, ed è la morte, uno stato che temevo senza comprenderlo (…)
Ahimè perchè l’uomo si vanta di possedere una sensibilità superiore a quella che mostrano gli animali? Questo non fa che renderli più legati alla necessità. Se i nostri impulsi si limitassero a fame, sete e desiderio, saremmo pressochè liberi; invece ogni refolo di vento, ogni parola detta a caso o la scena che quella parola revoca in noi e ci tocca nel profondo. (…)
Dormiamo: un sogno può avvelenare un sonno.
Ci destiamo; un pensiero errante inquina il giorno.
Sentiamo, immaginiamo, o ragioniamo; riso o pianto
abbracciano il dolore o scacciano le cure,
è lo stesso: perché, sia gioia o dolore,
il sentiero per la sua partenza è sempre libero.
L’ieri dell’uomo non sarà mai come il suo domani; niente sta fermo se non la mutevolezza. (…)
Questi sono brevi estratti del Frankenstein di Mary Shelley, romanzo gotico nato nel 1816 durante una notte piovosa, durante la quale l’autrice immaginò la genesi del mostro che diventerà un immortale esempio di diverse simbologie.
Il “mostro”, assemblato con resti umani e a cui il dott. Frankenstein da la vita, è una creatura vivente che sviluppa i propri pensieri, le proprie emozioni e le proprie paure. La creatura ci osserva, ci spia, si relaziona con noi; attraverso i suoi occhi abbiamo una restituzione sulla condizione della nostra umanità, una sorta di insegnamento, ovvero che, alla fine, forse siamo noi i veri mostri; in un gioco di specchi in cui la creatura restituisce all’uomo tutto l’odio e le ingiustizie ricevute, lui non si sente un mostro ma ne prende consapevolezza perché sono gli altri a trattarlo come tale.
Tra queste righe possiamo scovare un altro importante insegnamento. La creatura, come tutti gli uomini, è alla ricerca del proprio benessere che, in questo caso, coincide con una vera e propria ricerca della semplicità. Al mostro, per stare bene, servono pochi desideri da soddisfare: stare in pace, non essere solo e non essere giudicato. Stop. Si sorprende del perché l’uomo non ricerchi gli stessi desideri, ma si abbandoni a rabbia, sfiducia, invidia, generando dolore, problemi, morte, spesso in modo futile.
E noi, come ci comportiamo? Che obiettivi e finalità hanno le nostre azioni e i nostri comportamenti?
Il nostro approccio alla vita, gli atteggiamenti, le relazioni, l’amore, il lavoro, gli hobby, le passioni, il tempo, gli stili di vita, sono dimensioni che accompagnano le nostre giornate e dovrebbero avere come fine ultimo il nostro benessere, il renderci felici. Ma è veramente cosi? Siamo consapevoli di questo o agiamo senza darci peso? (per un maggiore approfondimento leggere Il tempo di un caffè – La prospettiva delle semplici cose ).
A volte le nostre azioni nascondono un tranello, ovvero il loro obiettivo non è quello di ricercare il nostro benessere, ma è quello di far rimanere le cose così come sono. L’agire diventa un modo per mantenere inalterato lo statu quo, di regolarci alla ricerca di un equilibrio che conosciamo e dal quale non vogliamo discostarci. La finalità, dunque, non è più il benessere, ma il controllo. Questa è una situazione che potrebbe anche andar bene se in linea con i nostri bisogni, ma se dobbiamo reprimere continuamente ciò che desideriamo il rischio è che il benessere sia solo un illusione, mentre qualcosa inizia a bruciarci dentro. Il punto è se proviamo davvero a soddisfare i nostri bisogni, a ricercare i desideri che ci fanno stare bene. Quante volte inseguiamo situazioni che ci creano disagio, accettiamo condizioni che non vorremmo vivere, ci facciamo piacere persone che in realtà ci fanno stare male. Quante volte mettiamo da parte i nostri bisogni, bloccati dal timore di realizzarli ed esternarli, per paura di essere giudicati dagli altri o di giudicare noi stessi troppo severamente. Quanta paura abbiamo di metterci in gioco, di abbandonare il nostro controllo trasformandoci, accettando il rischio di essere additati come il “mostro” che non viene più riconosciuto? Quanto ci sentiamo liberi?
Il “mostro” ci vede come quelli “…rimasti nel loro bosco, ignoranti…” legati a quello che sanno e che fuggono la curiosità del conoscersi, della scoperta. Ci vede impauriti, chiusi nelle nostre catene mentre preferiamo puntare il dito contro gli altri per sentirci meglio, invece che scoprire ciò di cui abbiamo veramente bisogno. Lui non ha paura di mettere la mano nel fuoco, scoprendone contemporaneamente il conforto del calore e il dolore della bruciatura. E forse è questo alla base della nostra confusione: la paura del dolore. Un dolore che ripetutamente proviamo a negare, fuggire, controllare, sostituire. Per il “mostro”, invece, il dolore è un valore essenziale da ricercare, non può essere messo in disparte ma va vissuto, accettato e trasformato, perché soltanto attraverso esso possiamo rafforzarci e migliorarci. L’unico modo per evitarlo è la morte, che invece sì va temuta in quanto fine di tutto.
Il “mostro” ci accusa di perderci nei nostri ragionamenti, nelle nostre ossessioni, nella ricerca di cose di cui non abbiamo realmente bisogno. Ed è qui che forse cadiamo in un paradosso. Per ridimensionare la nostra paura di soffrire, inevitabile, cerchiamo di sostituire il dolore, creandoci problemi che in realtà non abbiamo, assecondiamo situazioni che non ci appartengono solo per distrarci, usiamo male il nostro intelletto, nel modo sbagliato ci “…vantiamo di avere una sensibilità superiore a quella degli animali…”, in poche parole iniziamo ad infliggere a noi stessi il dolore che in realtà stavamo provando ad evitare. Ci allontaniamo da quella ricerca della semplicità, fatta di “…fame, sete e desideri…”, che rappresenta la soddisfazione dei nostri veri bisogni.
La ricerca della semplicità che ci suggerisce il “mostro” non è composta da un’addizione, da una somma di esperienze accatastate l’una sull’altra dalle quali estrapolare lezioni, insegnamenti e virù; la ricerca che ci viene suggerita è una sottrazione, il saper eliminare il superfluo, imparare dagli errori ripulendo le nostre esperienze da quello che non ci serve, fino a quando il nostro benessere sarà composto da poche cose, chiare e potentissime.
“..L’ieri dell’uomo non sarà mai come il suo domani, niente sta fermo se non la mutevolezza…”, non saremo mai uguali a noi stessi, anche i nostri tentativi di controllo sono, prima o poi, destinati a fallire, quello che possiamo fare è accettare di scoprire il fuoco che brucia dentro di noi, assaporandone la forza e accettando le bruciature che inevitabilmente ci lascerà.
email: luca.notarianni@alice.it
Per approfondire:
“Frankenstein o il Moderno Prometeo” di Mary Shelley
“Il canto degli uccelli” di Anthony De Mello
“A tua insaputa” di John Bargh
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