Il controtransfert. Le emozioni del terapeuta in seduta

Foto di S. Hermann & F. Richter da Pixabay 

Fu Freud, in una lettera del 1909, destinata a Jung,  a definire per la prima volta il concetto di controtransfert, in tedesco “Gegenübertragung”. Questo complesso fenomeno venne descritto come una controtraslazione, che insorge nel clinico su influsso del paziente, sui suoi sentimenti inconsci. Secondo Freud l’origine del controtransfert era rintracciabile in conflitti inconsci non risolti. In sostanza una zona grigia, non elaborata nel corso della terapia personale del clinico. Quindi qualcosa di scomodo, dannoso ai fini del lavoro analitico. Soltanto dagli anni cinquanta in poi, con il lavoro clinico e teorico di autori quali Paula Heimann, e Heinrich Racker, il controtransfert assume una funzione utile e inevitabile nel lavoro clinico. Emerge l’importanza di non difendersi dai sentimenti provati nei confronti dei pazienti. (Per approfondire si rimanda all’articolo “Transfert e Controtransfert – Microcosmi di proiezioni” e  “Nella stanza d’analisi – La svolta di un agito” della rivista).

Come si traduce tutto questo nel lavoro clinico?

Il terapeuta non è uno schermo bianco, neutro e insensibile a ciò che il paziente rappresenta e mette in scena nel qui ed ora della seduta. Risonanze emotive inconsce e profonde possono emergere ad ogni istante di un colloquio clinico. Accade che la persona seduta sul nostro divano possa far sorgere in noi emozioni antiche, scomode, che dobbiamo essere in grado di osservare e costantemente ricondurre al lavoro e alla relazione nella quale siamo immersi, usandole a favore del processo clinico.

Nel lavoro terapeutico mi trovo costantemente confrontata con questo fenomeno. Ciò che ho potuto osservare nella mia pratica professionale è che il controtransfert assume aspetti differenti in base al paziente che abbiamo di fronte.

Avendo lavorato con molte persone sofferenti a causa di gravi patologie mediche, dal cancro all’endometriosi, mi sono trovata nella condizione di sentire particolarmente il dolore del paziente. Per mezzo dell’empatia il terapeuta si trova a “colludere” con la sofferenza fisica di chi ha di fronte. Nel corso del percorso clinico si trova ad accompagnare numerosi pazienti nelle varie fasi della patologia che li affligge. Continui controlli, analisi, interventi chirurgici, terapie invasive e debilitanti. La mitologica neutralità terapeutica descritta da Freud sembra essere a rischio quando una paziente di diciannove anni ci dice che dopo l’ennesima operazione all’intestino le è stato trovato anche un cancro alla tiroide. In quel momento possiamo sentire tutta l’angoscia di morte del paziente, la sua delusione. L’impotenza del paziente è l’impotenza del terapeuta. La terapia sembra svuotarsi di senso e prospettive. In quel momento possiamo fare tesoro del fenomeno controtransferale per comprendere cosa sta provando il paziente e sostenerlo.

In questo senso Winnicott affermava che il transfert analitico può essere inteso come una replica del legame con la madre. Il paziente deve poter usare il terapeuta a mo’ di oggetto transizionale e affermare la propria esistenza, venendo e sentendosi rispecchiato dal terapeuta. Di conseguenza la neutralità assume una declinazione differente. Secondo Nesci il paziente oncologico può essere considerato come una cellula uovo, che deve potersi impiantare nel setting-corpo analitico. Per poter funzionare in tal modo il terapeuta e il setting devono poter essere flessibili e poter accogliere la sofferenza estrema della persona.

Nella terapia con pazienti narcisisti Kohut scrisse che le persone che investono gli altri con libido narcisistica, sperimentano gli altri narcisisticamente, vale a dire come “selfobject” (oggetto sé). “Kohut propose che il narcisismo ha la sua propria linea di sviluppo così che, in ultima analisi, nessun individuo diventa indipendente dagli oggetti-sé, ma piuttosto richiede per tutta la vita un ambiente di oggetti-sé, che rispondano empaticamente.” In tal senso il terapeuta stesso deve rispondere empaticamente all’investimento fatto dal paziente su di lui. Appare evidente il fatto che le emozioni che il paziente fa risuonare nel terapeuta costituiscano un elemento fondamentale del lavoro analitico. Solo potendo riconoscere quelle emozioni, come riflesso di quelle del paziente in noi stessi, possiamo inserirle nel processo trasformativo dell’analisi.

Possiamo tollerare l’angoscia disgregante della pulsione di morte di un paziente malato terminale se possiamo utilizzarla come esperienza psichica comune, sulla quale costruire un pensiero. Senza risonanza emotiva non potremmo “funzionare” nel processo terapeutico. In aiuto del terapeuta arriva il gruppo analitico di supervisione. Grazie al gruppo possiamo analizzare il transfert e il controtransfert e quindi comprendere tutte le emozioni che abbiamo provato in seguito a queste dinamiche inconsce.

Esplorando ed elaborando queste dinamiche inconsce, condividendo la situazione clinica nel gruppo, grazie allo svelamento delle emozioni transferali e controtransferali presenti nel campo, possiamo trovare il modo giusto di collocarci sulla scena clinica.

Per approfondire:

Freud S. (1909) Cinque conferenze sulla psicoanalisi. In “Opere” vol. VI, Boringhieri, Torino;

Kohut H. (1971) Narcisismo e analisi del Sé trad. it., Boringhieri, Torino, 1976;

Kohut H. (1977) La guarigione del Sé trad. it., Boringhieri, Torino, 1977;

Kohut H. (1978) La ricerca del Sé trad. it., Boringhieri, Torino, 1982;

Nesci D.A., Poliseno T.A. (1997) “Metamorfosi e cancro. Studi di Psico-Oncologia.” Società Editrice Universo, Roma;

Paparo F. (1996) Ricerca Psicoanalitica, Anno VII, n. 1-2, pp. 41-53;

Racker H. (1968) “Studi sulla tecnica psicoanalitica. Transfert e controtransfert.” Armando Editore, Roma, 1970.

Dott.ssa Valeria Colasanti

Psicologa, Psicoterapeuta e Psico-Oncologa

Riceve su appuntamento a Roma(quartiere Trieste)

(+39) 348.8197748 alfastudiopsicologia@gmail.com 

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