Chi è uomo. La dignità dello spaventapasseri
Con un gran frullo d’ali
dal campo, spaventati,
i passerotti in frotta
al nido son rivolati.
Raccontano ora al nonno
la terribile avventura:
“C’era un uomo! Ci ha fatto
una bella paura.
Peccato per quei chicchi
sepolti appena ieri.
Ma con quell’uomo… Ah, nonno,
scappavi anche tu, se c’eri.
Grande grande, grosso grosso,
un cappellaccio in testa,
stava li certamente
per farci la festa…”.
“E che faceva?”. “Niente.
Che mai doveva fare?
Con quelle braccia larghe
era brutto da guardare!”.
“Non lavorava?”. “O via,
te l’abbiamo già detto.
Stava ritto tra i solchi
con aria di dispetto…”.
“Uno spaventapasseri,
ecco cos’era, allora!
Non sapevate che
non è un uomo chi non lavora?”.
Questa filastrocca è tratta da “il secondo libro delle filastrocche”, di Gianni Rodari del 1985. Con una semplice metafora, ma di grande impatto, l’autore evidenzia e mette in risalto l’importanza del lavoro per l’essere umano, elevandolo a simbolo che lo differenzia da un oggetto inanimato come lo spaventapasseri.
Chi non lavora “spaventa”, fa fuggire i passerotti, inquieta. Allo stesso tempo rischia di essere scoperto e sminuito, come fa il nonno svelando la verità ai suoi nipotini. Chi lavora, invece, è degno di rispetto ed è quindi verso di lui che i passerotti devono aver timore, verso il contadino, senza curarsi dello spaventapasseri che in realtà non può far loro del male.
In queste poche righe, semplici e scorrevoli, viene definita con precisione la centralità del lavoro nella vita dell’uomo. Anche se gli ultimi anni sono stati caratterizzati da grandi cambiamenti, in quanto si è passati da una cultura del lavoro stabile a una cultura lavorativa che necessita sicuramente di grandi capacità di adattamento e mobilità, il lavoro resta un elemento imprescindibile e profondamente significativo nella vita di una persona.
Il lavoro ci aiuta ad assumere un ruolo nel mondo, a sostenerci e definire i nostri confini. Lavorando sperimentiamo i nostri limiti, impieghiamo le nostre capacità, consolidando quello che sappiamo fare e scoprendo nuove qualità. Il lavoro stimola il cambiamento, il continuo migliorarsi; rappresenta spesso una valvola di sfogo quasi terapeutica nella quale gettarsi. Rappresenta, nella vita di ognuno, una sorta di microuniverso senza il quale, forse, non sarebbe possibile crescere come persone e vivere.
Sappiamo, però, che ogni medaglia ha il suo rovescio, spesso poco piacevole (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo Il leader “disteso”: un manager sul lettino).
I cambiamenti nel mondo lavoro hanno portato a una richiesta diversa nei confronti dei lavoratori, dai quali si pretende un spiccata capacità di abituarsi e modellarsi a diversi contesti. Viene richiesta una maggiore disponibilità negli spostamenti, nei cambi di ruolo e di responsabilità. Il mondo del lavoro non guarda più il lavoratore come una persona da “affezionare” alla propria attività, ma guarda tutti come pedine sostituibili e intercambiabili a seconda delle esigenze, generando, spesso, una grande senso di precarietà. La continua evoluzione tecnologica, inoltre, produce, annualmente, la nascita di nuovi lavori e nuove figure professionali che spesso vanno a renderne obsolete altre. Oltre all’essere bravi in quello che si fa, vengono richiesti continui aggiornamenti, continui cambiamenti e sempre nuove idee. Non sempre a tutto questo corrispondono premi e riconoscimenti (sia economici che morali).
Una situazione del genere può spesso portare una persona alla paralisi, a un’immobilità generata dalla frustrazione e la continua paura legate al proprio ruolo. “Perderò il lavoro?”, “Non so fare cose nuove”, “Vorrei cambiare ma non ci riesco”. Le continue richieste esterne, il dover rispettare standard di prestazione elevati, i continui stimoli che ci portano a fantasticare di poter fare sempre qualcos’altro, la paura che uno più bravo possa scalzarci, sono tutti aspetti che spesso trasformano il mondo lavorativo nella principale fonte di stress e problemi che, in un modo o nell’altro, finiscono per influenzare il resto della nostra vita. Ci sentiamo avviliti e privati di un ruolo per noi fondamentale, a volte quasi inutili. Ci sentiamo “meno persone” di prima, un po’ come lo spaventapasseri della filastrocca di Rodari.
Il nostro spaventapasseri, però, può darci una lezione importante. Non è del tutto vero che “non è uomo chi non lavora”. Perché il nostro amico di paglia un lavoro lo sta svolgendo, anche molto bene, è l’esterno, in questo caso i passerotti, che non se ne accorge. Lo spaventapasseri ha un ruolo fondamentale, permette al contadino di riposarsi, recuperando le energie per coltivare il campo. Protegge il raccolto, anche se temporaneamente, senza che il suo creatore versi una goccia di sudore. Apparentemente è un essere inanimato, ma in realtà possiede un animo attivo e prezioso.
Quando sentiamo che il lavoro, e forse anche la nostra vita, sia inutile, fermiamoci a ragionare per chi, o per cosa, stiamo ricoprendo un ruolo importante. Forse in quel momento non avrà senso per noi, ma lo avrà per un nostro collega, un nostro amico o le persone a cui vogliamo bene. In momenti in cui ci sentiamo uno spaventapasseri messo li per caso, pensare e scoprire che ci sono persone a cui stiamo facendo comunque del bene, può aiutarci a recuperare il senso delle nostre azioni, il senso di noi stessi e del nostro lavoro.
Almeno una volta nella vita, siamo stati tutti spaventapasseri.
“Il lavoro non mi piace – non piace a nessuno – ma mi piace quello che c’è nel lavoro: la possibilità di trovare se stessi. La propria realtà – per se stessi, non per gli altri – ciò che nessun altro potrà mai conoscere”.- Joseph Conrad –
email: luca.notarianni@alice.it
Per Approfondire:
Bauman, Z. (2003). Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone. Bari: Editori Laterza.
Gianni Rodari (1985). Il secondo libro delle filastrocche, Torino, Einaudi.
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