La dipendenza da cocaina. Into the white
Cindy Couling, I Try To Listen
Un pizzico di cocaina provoca nel mio organismo, in modo immediato e potente, una sensazione di felicità mai provata prima”
Da “Romanzo con cocaina”, M. Ageev.
Il fascino della cosiddetta polvere dell’angelo ha sempre avvicinato e sedotto molti, tra cui il padre della Psicoanalisi Sigmund Freud. Cosa si cela dietro quei granelli bianchi così apparentemente innocenti ma in grado di esercitare una così potente attrattiva? Per capirlo è necessario e doveroso entrare nel backstage; svicolare nei meandri dei meccanismi implicati nelle diverse forme di dipendenze fino ad arrivare alla polverina magica e a tutte le sue implicazioni.
La Cocaina, come vedremo, infatti, ha degli aspetti peculiari rispetto alle altre forme di dipendenza; aspetti che possono essere preziosi per possibili risvolti clinici e psicoterapici. Ma facciamo un passo indietro; cosa c’è dietro al concetto di dipendenza? Come spiegato nell’articolo della nostra rivista, “la dipendenza: vuoti di vita da colmare” a cui si rimanda il lettore per maggiori approfondimenti, qualsiasi forma di dipendenza è legata a emozioni con una forte connotazione negativa. Inoltre, il grande macro fattore, il filo conduttore di questi comportamenti, è la ricerca di piacere. Gallimberti, nel saggio “Morire di piacere”, ripercorre da bravo acrobata, questo filo; vorrei riproporre le metafore e gli snodi più significativi utili ai nostri scopi. La ricerca di piacere è presente in ogni piccola azione dell’essere umano; è quasi il fine ultimo e intrinseco dei nostri gesti. Pensiamo banalmente a quando mangiamo, facciamo sport, facciamo l’amore. E’ stata proprio la ricerca di piacere, che secondo la Bibbia, ha portato la nascita della vita sulla Terra; il riferimento è alla cacciata di Adamo ed Eva dall’ Eden per il desiderio di mangiare la mela peccaminosa. La sfumatura che rende questo negativo, è l’associazione del piacere con sostanze o comportamenti che hanno effetti nocivi per il nostro organismo sia per la loro entità fisica sia per l’uso reiterato; infatti, l’omeostasi dei circuiti e meccanismi cerebrali deputati al piacere sono alterati.
Gallimberti, usa per spiegare la condizione della persona dipendente due potenti metafore; la prima è il paragone con Lucignolo e Pinocchio. Infatti, i due protagonisti del romanzo di Collodi, dopo ripetuti giorni di bagordi nel paese dei balocchi prendono le sembianze di due asinelli. Il piacere in eccesso che deforma. Inoltre, l’autore, paragona la condizione della persona affetta da una qualsiasi forma di dipendenza a un Libertus; questo termine nell’antica Roma faceva riferimento allo schiavo affrancato, una condizione di semi-libertà. Infatti per quanto la dipendenza possa essere debellata, la persona che ne è stata affetta rimarrà in quella zona franca tra la dipendenza e la cessazione definitiva, dove sono piantate le bandiere bianche della resa trasparenti abbastanza da far intravedere la sagoma, seppur lontana del nemico. Attualmente il termine più usato per far riferimento alle dipendenze è addiction (comparso negli Stati Uniti negli anni 70); è una parola ombrello con la quale si indicano comportamenti apparentemente molto dissimili tra loro (ad esempio le pratiche di sport estremo e l’uso di Eroina) ma legati dai medesimi meccanismi neurali e dagli stessi neurotrasmettitori. Quindi parliamo di aree cerebrali quali il sistema limbico, l’area tegmentale ventrale e l’amigdala; la loro regina è la dopamina (per maggiori approfondimenti si rimanda al già citato libro di Gallimberti). Dopo questa, a mio avviso essenziale, premessa arriviamo alla polvere bianca; la sua peculiarità rispetto alle altre sostanze di abuso risiede nella fenomenologia intrinsecamente diversa delle sensazioni e delle conseguenze che produce su chi ne fa uso. Infatti, il suo raggio d’azione coinvolge maggiormente la sfera emotiva rispetto a quella fisica: questa è una caratteristica fondamentale se si considerano le implicazioni nel trattamento clinico e soprattutto psicoterapico a cui si farà accenno successivamente. L’uso di cocaina, infatti, riproduce le stesse sensazioni che si ottengono dal mangiare, dal bere e dal fare sesso ma anche dall’innamoramento. In altri termini, riproduce la felicità, descritta dal protagonista moscovita del romanzo di Ageev citato inizialmente. Una felicità strana, particolare, una felicità prodotta senza oggetto e senza avvenimento esterno. Nella fase d’intossicazione, infatti, si provano sensazioni e emozioni di un’intensità straordinaria come quelle tipiche dell’innamoramento; dall’altra parte, nella fase d’astinenza, non ci sono i classici sintomi tipici di altre sostanze d’abuso (ad esempio la nausea, insonnia, tremori) ma un dilagante senso di angoscia, inquietudine e tristezza. Questo, da un punto di vista clinico e in trattamento di tipo psicoterapico si traduce in un’atrofia emotiva; il paziente è staccato dalla sfera emotiva che esperisce solo grazie all’uso della sostanza, rendendo potenzialmente spigoloso il lavoro. Pertanto, se riescono a toccare parti emozionali nella terapia, queste saranno così potenti da innescare la ricerca di una loro riproduzione con la sostanza. Inoltre, la stessa presa in carico è piuttosto ostica: infatti il servizio che li può accogliere non avrà nulla da offrigli per lenire immediatamente gli effetti negativi dell’astinenza (come avviene ad esempio per gli eroinamani). Questi, infatti, non sono più fisici (quindi meccanicamente curabili) ma mentali. Tenere conto di questi elementi è inoltre importante nella prevenzione delle ricadute, molto frequenti, come d’altronde ci si poteva aspettare, in questa tipologia di pazienti.
In conclusione, a proposito del legame tra cocaina e sfera emotiva, riporto un passaggio significativo dell’autobiografia di AndreaBufano “Neve a Giugno”. Il protagonista, dipendente da cocaina, è appena venuto a conoscenza della morte di uno dei suoi migliori amici e sta per tornare nel suo piccolo paese salentino, Martano, per i funerali: “sono andato alla stazione a prendere il treno tra rabbia e dolore. Ogni 20 minuti mi facevo una botta di coca in bagno e andavo a bere quelle cazzo di birre del bar del treno, calde che facevano schifo. Sono state 9 ore di viaggio interminabili dove ho ripercorso la mia amicizia e tutti i ricordi quelli indelebili, con i miei amici (..) Era il 1999, avevo 22 anni, e non avevo nulla. La mia vita consisteva solo ed esclusivamente nel drogarmi di coca, non andavo nemmeno allo stadio più, mi ero isolato dal mondo”.
Riceve su appuntamento a Perugia,
Per Approfondire:
Luigi Gallimberti, Morire di piacere, dalla cura alla prevenzione delle tossicodipendenze, BUR saggi 2013.
Andrea Bufano, Neve a giugno autobiografia di Andrea Bufano,2018.