Il Colloquio Clinico. Donare senso all’esperienza del Sé

Cindy Couling, I Try To Listen

Mi chiamano psicologo. Questo è un errore. Sono piuttosto realista in un senso più alto, cioè descrivo tutte le profondità dell’animo umano.
(Fëdor Dostoevskij)

Questa frase di Dostoevskij introduce al vero senso di una consulenza psicologica; lo scopo di un colloquio clinico, infatti, è quello di andare ad indagare nella realtà psichica del soggetto.

La caratteristica del colloquio clinico sta nel privilegiare il rapporto interpersonale clinico – paziente e nel considerare questi il “principale protagonista” e, per poter stabilire un buon rapporto, è importante trasmettere fin da subito un sentimento di profondo rispetto nei confronti del malessere della persona.

Essendo ogni individuo unico ed indivisibile, il colloquio varia per approccio, linguaggio, struttura e contenuto, da situazione a situazione e a seconda delle caratteristiche del soggetto e dello psicologo; quindi bisogna tenere presente sia gli scopi del paziente, sia quelli del conduttore. È fondamentale avere un’idea precisa delle proprie capacità professionali, delle possibilità materiali per poter compiere un trattamento e tenere sempre ben a mente i tempi che si hanno a disposizione.

La psicologia clinica utilizzando il rapporto interpersonale come strumento di conoscenza ha nel clinico il migliore strumento. Partendo dall’osservazione dei fatti concreti, dai dati raccolti, il clinico li verifica con le ipotesi teoriche e risale con un percorso a ritroso agli eventi che li hanno determinati, per individuare il rapporto tra il singolo caso e legge generale.

Il modello clinico di personalità deve descrivere e spiegare l’organizzazione del pensiero nelle varie manifestazioni e livelli, la personalità e la sua evoluzione, le motivazioni, i rapporti oggettuali e le modalità di difesa.

Il colloquio permette un tipo di osservazione particolare e irripetibile, in quanto già nella presentazione il paziente dà indicazioni utili a capire quali siano le sue difficoltà, capacità e modalità con cui affronterà il colloquio, e tende ad osservare la situazione cosciente: sentimenti, angosce, rapporto con altri, ma deve chiarire anche motivazioni, aspettative e le eventuali soluzioni al problema, in un assetto corretto ed in un clima emotivo idoneo per sviluppare l’alleanza, che permetta al paziente di presentarsi ed esprimersi ed al clinico la possibilità di osservare, rilevare e comprendere gli elementi necessari. Pertanto è essenziale in un colloquio clinico la costituzione e il rispetto di un setting adeguato.

Il setting delimita un’area spazio temporale costante in cui avviene il processo clinico, è formato da elementi concreti e regole comuni nonostante la diversità di ogni incontro clinico.

Il setting può essere inteso sia come cornice esterna, ossia scenario prestabilito che delimita un’area spazio-temporale costante in cui avviene il processo clinico ed è formata da elementi concreti come luogo, accoglienza, ritmo, durata e pagamento (il contratto), ma anche da regole importanti come l’atteggiamento del clinico, che determina i ruoli per ricevere messaggi ed analizzare il vero significato affettivo del soggetto, in modo da evitare relazioni proprie della quotidianità che impedirebbero di controllare le emozioni anche del clinico. Il paziente può stabilire col setting un rapporto di tipo adattivo o reattivo che riguarda il modo in cui si adatta al contesto , o di tipo personale o caratteriale, che indica la modalità usata per “adattare” il contesto alle sue esigenze e quale influsso cerca di esercitare su di esso. Pertanto il clinico deve avere sia una preparazione professionale che doti umane, come discrezione e sensibilità, per guidare il rapporto, che vede comunque il soggetto come protagonista. Inoltre il clinico deve essere in grado di saper utilizzare l’empatia, ossia quella speciale disposizione del clinico che permette di cogliere i pensieri e gli stati d’animo del paziente e trovare la distanza ottimale, per comprenderlo e aiutarlo, alleandosi con la parte sana del paziente che vuole migliorare. L’intento è la costruzione dell’alleanza, nella quale il paziente si identifichi con l’atteggiamento ed il metodo del terapeuta, come il bambino che pone fiducia nelle figure significative del suo ambiente. L’alleanza si basa sulla fiducia che il paziente ha in se stesso e nelle sue capacità e sulle capacità del clinico di aiutarlo. Il soggetto può dire e manifestare apertamente i suoi sentimenti, anche negativi ed anche nei confronti del clinico, senza che questi risponda o lo giudichi negativamente; può mostrarsi indeciso e ambivalente : il clinico lo aiuterà con pazienza a chiarirsi. Allo stesso tempo il clinico può mettere in discussione quanto dice senza che questo sia indice di ritiro del suo sostegno emotivo e della comprensione.

Le dinamiche del paziente, però, non sempre sono chiare: la richiesta di consultazione può avvenire in un momento di crisi relazionale, organica o intrapsichica poiché il sistema difensivo non regge e provoca uno squilibrio nella organizzazione di personalità; per quanto il soggetto chieda aiuto, potrebbe non collaborare, reagendo con difese che, pur non agevolando il rapporto, sono comunque di aiuto per capire la dinamica del soggetto.

È importante il “qui e ora”: il modo di porsi del soggetto, il suo atteggiamento, il modo di raccontare, in quanto riproducono la sua modalità di funzionamento in una certa situazione.

Il paziente si aspetta dal clinico non solo la guarigione, ma un tipo di relazione che dipende dalla sua personalità e dalle sue difficoltà.

Lo scopo della consultazione diagnostica può essere raggiunto solo se il clinico non consente a nessun modello di paralizzare la sua capacità di cogliere la realtà del paziente. In altre parole, l’assetto emotivo-cognitivo del clinico è fondato su una identificazione provvisoria con i metodi, l’atteggiamento e gli scopi del paziente , piuttosto che sullo sforzo attivo di promuovere l’identificazione del paziente con l’atteggiamento e i metodi propri. L’eventuale presa in carico terapeutica, nella quale il paziente si piega alla specificità della tecnica che presiede al trattamento, può avvenire solo dopo che la consultazione, attraverso l’impiego di tutti gli strumenti che le sono propri (colloqui, test, osservazione, ecc.), ha raggiunto l’obiettivo di una diagnosi funzionale e quest’ultima è stata comunicata al paziente, nella cosiddetta restituzione.

La restituzione assume un un ruolo fondamentale nella conclusione di un colloquio clinico, poiché dona un senso all’esperienza del paziente nella relazione con il clinico, ma apre anche alla possibilità di poter intraprendere un percorso insieme, di supporto psicologico o di psicoterapia, che possa restituire al paziente la possibilità di esprimersi in un’esperienza finora mai provata: l’espressione libera del Sè.

Dott. Dario Maggipinto

Riceve su appuntamento a Chieti

(+39) 334 9428501

dario.maggipinto@gmail.com

Per Approfondire:

Ferrari A.B., “Relazione analitica: sistema o processo” Rivista di psicoanalisi, XXIX, 4, 470-490.

Ferrari A.B., L’eclissi del corpo. Una ipotesi psicoanalitica, ed. Borla, Roma

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