L’angoscia del cambiamento. Immergersi nell’indefinito
Più di una volta nella nostra vita abbiamo dovuto affrontare dei cambiamenti importanti, e, talvolta, a subirne le conseguenze. In realtà ogni aspetto della nostra esistenza è costellato da continui cambiamenti, ma l’idea di rimanere fedeli a se stessi e alla propria progettualità di vita, qualora ce ne fosse una, ci porta ad illuderci di poter controllare ogni cosa di sé stessi, compreso il futuro. Il cambiamento porta con sé la perdita di parti di sé, per fare spazio ad altro, a nuovi parti di sé, ancora in fase embrionale ( per un maggior approfindimento si rimanda all’articolo La paura del cambiamento – la spinta vitale dell’instabilità). Questa fase, molto critica, è una vera e propria fase di passaggio, dove l’individuo sente di non poter essere più A, ma sente ancora di non poter essere B, e allora, cos’è?
Ci ritroviamo in una sensazione di non essere ne A e ne B, all’interno di un bosco oscuro dove ci si sente sperduti, perché l’ignoto ed il nuovo vengono percepite come essenze minacciose, come entità interne sui quali non sappiamo se poterci affidare o meno e talvolta, nei sogni, vengono raffigurati come bambini, neonati, o bambole minacciosi e terrificanti.
Talvolta la tendenza nel controllare gli aspetti della propria vita in maniera pragmatica e razionale non è più in grado di gestire in maniera funzionale questa fase di passaggio, e dunque, nel suo tentativo di rimettere ordine al caos, lancia un segnale d’allarme forte e impossibile da ignorare, l’attacco di panico ( per un maggior approfondimento si rimanda agli articoli L’attacco di panico – Il terrore nel divenire e L’attacco di panico – Quei sani sabotatori interni ). Nella maggior parte dei casi, infatti, l’attacco di panico insorge di fronte al terrore di non sapere più qual è la propria progettualità, davanti ad una tendenza di controllo razionale incapace di comprendere cosa stia succedendo e dunque la persona con attacco di panico, nonostante sia consapevole da un punto di vista razionale cosa stia succedendo, non riesce ad immergersi nel proprio dolore e nelle proprie emozioni, prendendone le dovute distanze. Non è un caso che l’attacco di panico sia molto più diffuso nell’era moderna, poiché in passato, seppure le regole sociali potevano essere molto restrittive, l’individuo incapace di accedere ad una propria comprensione emotiva, poteva tranquillamente fare affidamento ad un controllo razionale, integrandosi perfettamente con un’identità sociale fornita dalla comunità ( ad. Esempio l’essere unicamente madre o unicamente lavoratore) senza mai esplorare le proprie esigenze emotive interne, le proprie domande: Chi sono io? Cosa sento? Cosa desidero? Chi sono oltre ad una categoria?
Oggi giorno tutto ciò diviene più difficoltoso, ci si laurea e non si trova immediatamente lavoro e dunque, non sono più uno studente laureato, cosa sono? Un disoccupato, nessuno mi vuole, non valgo nulla, sono inutile; oppure i miei figli non si sono ancora sposati e non hanno fatto figli, ed ora che sono andati via di casa chi sono? Non posso essere neanche nonna, non valgo nulla, sono diventata inutile. Laddove la propria identità si poggia unicamente su un’utilità verso l’altro e verso la società, i cambiamenti importanti della nostra vita verranno sempre percepiti con un sottofondo di minaccia identitaria: “Evviva mi sono laureato….e ora che faccio?”, “Che bello mio figlio si sposa….rimarrò solo/a”. In tutti questi casi la crisi identitaria, generata da tutte queste domande, e dall’angoscia che ne derivano, può essere l’occasione più importante per domandarsi qual è il proprio valore, inteso non in riferimento allo sguardo e l’approvazione dell’altro, piuttosto ad un valore interno ritrovato in un dialogo con se stessi. Fermarsi e domandarsi, ma io cosa sento? Cosa voglio? In altre parole immergersi in quel perenne senso di vuoto e mancanza che accomuna ogni essere umano per poi riempirlo con parti di Sé, piuttosto che evacuare tali mancanze sull’altro. In altre parole, bisognerebbe intendere la propria vita come una narrazione e capire se gli autori della storia siamo noi, con le proprie passioni, sogni, ideali, sensazioni, emozioni, dolori, prove da superare, ostacoli e soddisfazioni oppure se preferiamo essere semplicemente citati nelle storie degli altri. E dunque, davanti all’insicurezza dell’ignoto, del non controllo di ciò che potremmo diventare, la soluzione migliore potrebbe essere quella di conoscere gli abitanti del bosco oscuro, i propri abitanti, per una consapevolezza interna, per non aver paura di sé stessi, ed accettare la possibilità dell’indefinito per poi definirsi. Poichè, se non facciamo spazio, elaborando gli irrisolti del passato, non potremo mai accedere a nuovi stati del sé più maturi e sereni. In fondo, ciò a cui bisogna ambire, non è la ricerca maniacale della felicità e della risata, piuttosto una profonda consapevolezza di sé, la gioia di potersi narrare e dialogare, nella consapevolezza di avere sempre con sé un compagno fedele, ossia la parte di noi più profonda.
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Per Approfondire
Miceli M. (1998) L’autostima. Bologna: Il Mulino
Giusti E. (1995) Autostima. Psicologia della sicurezza di sé. Sovera editore
Van Gennep A. 2002 I riti di passaggio, Bollati Boringhieri.
Maria Madalina Sas
Buonasera dottore,
Mi sono imbattuta in questo articolo per caso, essendo alla ricerca di senso.
In seguito a due aborti spontanei negli ultimi due anni, l’ultimo a Gennaio, e ora la rottura con il mio compagno, decisa da lui, con una relazione di 14 anni alle spalle.
Mi sento vuota, persa , in questa crisi identitaria come ha appena spiegato lei…
Ho addirittura pensato di stare per impazzire, ho consultato infatti uno psichiatra che mi ha dato semplicemente delle compresse di Xanax da prendere la sera. Quindi so che non sto impazzendo ma non so cosa fare per uscirne…
Spesso penso che sarebbe meglio morire, perché sento che non ho più senso di esistere…non riesco più a trovare i sogni che avevo, non ho più desideri, ho solo tanta paura e tanti sensi di colpa.
Una parte di me sa che non è così, ho la mia famiglia accanto, i miei nipoti che mi amano…
Eppure non riesco a reagire, sono passati ormai due mesi e mezzo di disperazione…
Anche se mi rendo conto che è dal primo aborto di due anni fa che mi porto dietro un po’ questa sensazione di non avere più un senso.
Come si fa a ritrovare un senso alla propria vita quando si perde tutto??
Scusi lo sfogo
Grazie mille…