Mese: Luglio 2018

Il segno d’amore. Di desideri e dintorni

Giovani adolescenti a confronto che dinanzi all’ultimo modello di Iphone appena acquistato da una di loro: “Guarda qui… finalmente! Sapessi quanto lo volevo”! L’altra, fra l’incredulità e l’invidia, le fa eco appena un istante dopo: “Noo! Spettacolare! Lo voglio anch’io”! Alla voce del verbo volere: “Essere intenzionato a ottenere qualcosa. Desiderare qualcosa”.  Ma questa voglia, questa bramosia neanche tanto velata, ha davvero a che fare con la dimensione del desiderio, o è tutta un’altra storia? E cosa s’intende con la parola desiderio? Prima di questo, mi corre l’obbligo di effettuare una constatazione necessaria.

L’era ipermoderna in cui siamo immersi, ci espone costantemente al convincimento (peraltro, errato) che la sempre maggiore accessibilità ai beni di consumo, non incontri nella sua imperterrita scalata verso l’alto, alcun impedimento o confine di sorta. Un’epoca come la nostra, in cui ogni “oggetto” è ormai sempre più facilmente fruibile e raggiungibile, finisce con l’impattare violentemente contro un dato via via crescente che ci coinvolge indistintamente tutti: l’esperienza del limite, è una condizione sempre meno presente nell’esistenza dell’uomo del terzo millennio. Se il concetto di “perdita” – simbolica o meno che sia – di un oggetto, normalmente, induce un momento di fermo in colui che la subisce (e che si appresta così ad attraversare il percorso tortuoso e doloroso dell’elaborazione luttuosa), è altrettanto vero che oggi l’incontro con la perdita, della cosa o dell’altro, finisce col cedere il passo alla sua tassativa, febbrile sostituzione, che si fa azione compulsiva e improrogabile. Il movimento psichico è quello della fuga in avanti, alla ricerca di un nuovo oggetto vicario che possegga o richiami anche solo alla lontana, un aspetto di quello appena andato perduto.

Ciò rende bene la cifra dell’illusione in cui l’uomo è miseramente destinato a cadere, un’illusione figlia del capitalismo mossa dal convincimento che nulla abbia il carattere della singolarità, dell’unicità, poiché tutto, al giorno d’oggi, si fa “pezzo” sostituibile. Il mero componente d’un insieme meccanizzato e privato della sua anima. Il risultato?

È un’entità assai distante dal desiderio e ben più vicina al godimento che travalica gli argini e che richiede di essere esaudito tempestivamente. Un godimento che ha il suono di una schiavitù, che non conosce attesa o frustrazione, ma che si pone come ego – centrato, autisticamente accartocciato al suo interno. Ripiegato su se stesso, è costantemente impegnato a confermare la totale mancanza di limite al suo pieno soddisfacimento. L’esistenza di un limite fondante è qui rifiutata, denegata. Eppure, un “desiderio” che faccia difetto del senso del limite, il “desiderio” spinto dall’ostinato convincimento che tutto può fare e tutto può essere, non può certo definirsi tale, finendo bensì con lo svuotarsi dell’essenza stessa da cui germoglia il vero desiderio: ed ecco che il primo si fa allora capriccio sterile, volontà erosa dall’insoddisfazione di fondo che la sorregge e che non gli concede tregua. È un albero inaridito. Un godimento senza desiderio.

A dettare il netto divario fra godimento effimero e desiderio autentico, ci pensa una norma tacitamente acquisita all’interno di ogni società che voglia dirsi civile: è la legge che permette all’uomo di confrontarsi col proprio limite e che gli ricorda che non può essere esattamente tutto ciò che vuole, né avere accesso indistinto a tutto quel che brama senza differenziazione alcuna. C’è un discrimine, un limen oltre il quale non è consentito passare. È la legge della castrazione, una legge che introduce l’uomo all’esperienza dell’impossibile, una legge non scritta che vieta all’umano di godere in-distintamente di tutto: è la legge che impedisce che l’incesto si compia, una legge che lo condanna aspramente e lo rende veto. Paradossalmente, sarà proprio questa proibizione fondante, a dar vita al desiderio pienamente detto, rendendolo esperienza possibile. Il desiderio è intanto una dimensione espansiva, generativa, che produce vita e che la vita la moltiplica: a dispetto del godimento – che parte da sé e in sé s’incancrenisce, producendo atmosfere mortifere – il desiderio autentico implica sempre la presenza dell’altro significativo, poiché per sua intima costituzione, il desiderio ha una natura relazionale. Il desiderio si fonda perciò sempre a partenza dall’altro e nell’altro ed il contatto con esso permette un allargamento degli orizzonti e del mondo che la persona vive. Da quell’istante, niente è più come prima.

A produrre desiderio, può essere idealmente qualunque tipo di incontro con l’altro, sia esso rappresentato da un viaggio, da un amore, da un libro, dalla scuola, da un amico o da un familiare. Ciascuno di questi incontri può trasformare e allargare i nostri orizzonti, poiché ci consente di trovare nuove parole per decodificare il mondo e dotarlo di quel senso che gli mancava. L’atto del desiderio possiede in sé una forza motrice creatrice, una spinta vitale che trascina verso l’esterno e che quasi “s’impossessa” dell’Io, fino a disorientarlo, fargli perdere il proprio baricentro, come ad esempio accade quando sperimentiamo sulla nostra pelle le dinamiche dell’innamoramento e ad esso cediamo, fino al punto che nessuno di noi “sceglie” di chi innamorarsi. Nel desiderio non c’è perciò alcun calcolo ragionato o imbrigliato dalle catene del giudizio morale (“qui è meglio di lì”), ma in esso regna piuttosto un aspetto d’instabilità e incertezza sottesa che lo distanzia e differenzia nettamente dalle rigide sequenze del godimento. Per Lacan, ogni forma di allontanamento o tradimento della “legge” del nostro, personale desiderio – verso il cui valore ciascuno di noi ha una grande responsabilità – sarebbe indicativo del complesso di sintomi psichici che la persona porta con sé e che in qualche modo parlano al suo posto. Ne è un esempio certamente infelice la trasparenza del corpo della giovane anoressica, che nel disperato tentativo di ricerca di parole e di sensi negli altri significativi attorno a lei – tutti strenuamente incentrati sul suo ostinato rifiuto del cibo – fa uso del suo soma per testare l’amore dell’altro. Un po’ come se quella sua chiusura alla vita sottintendesse una domanda (d’amore) che esige una risposta partecipata dell’altro. Una parola, che si fa allora segno d’amore. Nell’altro, nel desiderio dell’altro, è deposta la personale domanda di riconoscimento: se l’altro vi risponde, c’è una legittimazione all’esistenza. L’anoressica domanda: “Ho un qualche valore per te? Conto davvero qualcosa per te? Se io scomparissi, la tua esistenza sarebbe la stessa anche senza di me”? E l’anoressica, nel suo attendere una risposta dal “suo” – altro significativo (una madre, un padre), conferisce all’oggetto del suo desiderio d’amore il carattere dell’unicità, dell’esclusività: esso, in quanto oggetto sfuggente e non assimilabile, resiste ad ogni possibile baratto, facendosi soggettivamente in-sostituibile.

Per approfondire

Recalcati M. Ritratti del desiderio. Raffaello Cortina Editore, Milano

Recalcati M. Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna. Raffaello Cortina Editore, Milano

Dott.ssa Carmela Lucia Marafioti 

Riceve su appuntamento a Larino (CB)
(+39) 327 8526673

cl.marafioti@hotmail.com

Pet therapy. Terapia a quattro zampe

Sempre più spesso nell’ambito degli interventi psicologici si sente parlare di Pet Therapy. Ma cosa s’intende effettivamente quando si utilizza questo termine? La Pet Therapyè un intervento, frequentemente utilizzato all’interno di un progetto terapeutico più ampio, caratterizzato dalla presenza di un terapeuta, di un animale con un suo conduttore e di un paziente. Spesso si prediligono i cani, ma anche altri animali vengono scelti in quest’ambito, come per esempio i cavalli. 

La nascita di questo tipo di intervento si fa risalire agli anni ’50, quando lo psicoterapeuta Levinson ebbe modo di osservare casualmente che la presenza di un animale domestico in stanza di terapia poteva avere degli effetti positivi sul lavoro terapeutico. Più nello specifico, Levinson raccontò di avere in cura da tempo un bambino con autismo che presentava particolari resistenze al lavoro e che un giorno il piccolo s’imbatté nel suo cane. Quest’incontro si rivelò prezioso: non solo il suo paziente iniziò a venire più volentieri in terapia, ma la presenza del cane durante le sedute migliorò l’andamento della terapia stessa. Levinson introdusse così l’idea che l’animale poteva avere una funzione di co-terapeuta, riconoscendogli un ruolo particolarmente importante. 

Negli anni, diversi studiosi hanno cercato di dare una spiegazione agli effetti benèfici che si possono osservare in alcuni casi in seguito a un percorso di Pet Therapy: la relazioneche s’instaura tra il paziente e l’animale sembra essere la variabile vincente. Dietro la parola relazione si nasconde un mondo, nel senso che questo termine va inteso come la possibilità che ha il paziente di conoscere e di esplorare parti di sé con l’altro in modo unico, in quanto ogni relazione è a sé, anche quella con un amico a quattro zampe! 

La presenza stabile dell’animale per il paziente può restituire un senso di sicurezza e di contenimento emotivo utile per la formazione dell’alleanza terapeutica inizialmente e in seguito per il sostegno nell’esplorazione delle aree più fragili del sé. Nella relazione con un animale si scoprono anche i vissuti legati all’accudimento e quindi si stimola la capacità di comprendere le esigenze dell’altro e l’empatia. Donare calore all’altro può restituire un senso positivo di sé e abbassare il vissuto di stati ansiosi e depressivi. Anche il gioco è una dimensione della relazione con l’animale che spesso si esplora. In particolare con i cani vi è la possibilità di stabilire insieme delle regole e di giocare muovendosi nello spazio e stimolando complessi processi cognitivi e creativi. 

Inoltre, con i pazienti più piccoli s’innesca spesso un meccanismo di identificazione con l’animale che permette al bambino di parlare di alcuni vissuti attraverso la figura del cane, utilizzando anche delle favole. Questo meccanismo è di enorme importanza in quanto in alcuni casi per il bambino è importante riuscire a mettere in campo il proprio vissuto e a simbolizzarlo. 

Più in generale, la fisicità caratterizzante la relazione con un animale riporta a una dimensione fondamentale del rapporto, quella del contatto e del calore a partire dal corpo che ha un linguaggio unico per ogni specie animale, ma che nella cerchia dei mammiferi ha degli aspetti comuni tra tutti gli esemplari. La possibilità di stare con un mammifero di un’altra specie spinge a riscoprire il linguaggio non verbale e quindi a stare in contatto con le proprie emozioni. La possibilità di stare con l’altro senza l’utilizzo del linguaggio verbale può avere un potenziale enorme slegando il soggetto da sovrastrutture legate alla parola in grado di innescare velocemente stati difensivi. 

Stare con l’altro è l’evento più naturale e complesso del mondo e la relazione è lo strumento più potente che abbiamo per rivoluzionare chi siamo. In questo senso gli animali sanno cambiare le nostre vite. 

Dott. Clarissa Cavallina

Riceve su appuntamento a  Roma

+39 333 2492898

Per approfondire

CIRULLI, F. Animali terapeuti: Manuale introduttivo agli Interventi Assistiti con gli Animali. Carocci Editore, Roma, 2013

La leggenda di Cristalda e Pizzomuno. L’attesa nelle relazioni

“Si racconta che al tempo, in un vilaggio di pescatori, vivesse un giovane alto e forte di nome Pizzomunno. Sempre nello stesso luogo abitava anche una fanciulla di rara bellezza, con i lunghi capelli color del sole di nome Cristalda. I due giovani si innamorarono, amandosi perdutamente senza che niente potesse separarli. Pizzomunno ogni giorno affrontava il mare con la sua barca e le sirene emergevano dal mare per intonare in onore del pescatore dolci canti. Le creature marine, prigioniere dello sguardo di Pizzomunno, gli offrirono diverse volte l’immortalità se lui avesse accettato di diventare il loro re e amante.L’amore che il giovane riversava su Cristalda, però, rendeva vane le offerte delle sirene. Una delle tante sere in cui i due amanti andavano ad attendere la notte sull’isolotto che si erge di fronte alla costa, le sirene, colte da gelosia, aggredirono Cristalda e la trascinarono nelle profondità del mare. Pizzomunno rincorse invano la voce dell’amata. I pescatori il giorno seguente ritrovarono il giovane pietrificato dal dolore nel bianco scoglio che porta ancora oggi il suo nome.  Ancora oggi ogni cento anni la bella Cristalda torna dagli abissi per raggiungere il suo giovane amante e rivivere per una notte sola il loro antico amore.”

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L’Io Migrante

L’esperienza triadica del trauma oltrefrontiera

E poi c’è questo di fianco

che ha chiuso gli occhi e non li apre più

E’ da due giorni che dorme, che pare non respiri

Non ho mai visto nessuno dormire così tanto

Ho chiesto a mamma e ha detto che era proprio stanco … boh

Tre giorni fa ne hanno buttati una ventina in mare

Mamma dice che volevano nuotare

Io li sentivo gridare e non sembravano allegri

Ma almeno adesso ho un po’ di spazio per i piedi…

(“Stiamo tutti bene” Mirkoeilcane)

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Nascere straniero a casa tua. Riflessione sullo straniero che è in noi

In questo periodo si parla dell’Altro, dello straniero, del diverso, quasi ossessivamente, e sempre come se fosse qualcosa di lontano, fondamentalmente estraneo a noi, Altro appunto.Ma “L’alterità accompagna da sempre la costituzione dell’identità”.

Siamo in realtà abitati dall’Altro, il nostro Io è un altro rispetto a noi, scrive Recalcati citando Rimbaud, che proprio per conoscere l’Altro che lo abitava, si mise in viaggio, verso nuovi popoli e nuove possibilità. Il soggetto è costitutivamente diviso,ovvero non è una monade, chiusa, solida, bastante a se stessa, ma ha sempre bisogno dell’Altro, tende sempre verso l’Altro.

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