Bambini iperattivi e disattenti. Vuoi giocare con me?

Negli ultimi anni i media si sono focalizzati sul Disturbo da Deficit dell’Attenzione e dell’Iperattività (DDAI), per tutta una serie di motivazioni, che vanno da alcune concettualizzazioni opposte del disturbo (da una parte l’approccio neurobiologico tutto centrato sulla fisiopatologia e dall’altra l’approccio socio-antropologico dove i sintomi sono una conseguenza di un sistema malfunzionante) ai dibattiti sulle variopinte proposte di intervento (prima l’introduzione degli psico-farmaci nei bambini con i sintomi più accentuati e più recentemente in Germania l’utilizzo di giubbotti imbottiti di sabbia per farli “stare buoni” in classe).

Oggi il DDAI risulta essere uno dei motivi più frequenti per cui un bambino viene portato in un centro clinico ed è quindi importante continuare a parlarne e a fare una certa chiarezza in merito alla questione.

Questo quadro clinico si manifesta perlopiù in età evolutiva ed è caratterizzato da disattenzione, iperattività ed impulsività, sintomi che interferiscono con lo sviluppo sociale e personale del bambino.

Sostanzialmente, il bambino con ADHD ha un quoziente intellettivo nella norma ma manifesta delle grandi difficoltà nel controllo del suo comportamento in funzione alle richieste dell’ambiente; questo vuol dire, per esempio, che a casa e a scuola si distrae con estrema facilità e riscontra una particolare difficoltà nel rispettare le regole e nel gestire la frustrazione.

Problematiche legate alla disattenzione e all’impulsività sono molto comuni durante la crescita, ma rappresentano una condizione clinica significativa solo quando hanno un impatto sulla vita familiare, scolastica e relazionale del bambino a tal punto da influenzare negativamente la sua qualità di vita. Infatti, questi bambini vengono spesso etichettati negativamente e trattati come se i loro comportamenti inopportuni fossero in qualche modo intenzionali, quando invece nel DDAI, vi è una effettiva difficoltà nel comprendere i propri stati interni e nel gestire le proprie reazioni. La questione diventa più complessa se si considera che accanto alla diagnosi di DDAI si sviluppano più spesso che in altri bambini anche altri quadri clinici legati in particolare ai disturbi della condotta (bambini provocatori) o ai disturbi legati al tono dell’umore, come la depressione (a volte la depressione viene letta come una conseguenza della sofferenza del bambino a causa dei suoi fallimenti legati al DDAI). Questo vuol dire che ognuno di questi bambini fa delle personalissime esperienze di complesse dinamiche relazionali e affettive nei vari contesti in cui cresce che lo fanno soffrire, e questa esperienza va compresa profondamente e non sottovalutata.

Ad oggi esistono numerose ricerche scientifiche che hanno identificato alcuni fattori genetici fondamentali nella comprensione della manifestazione del DDAI. Inoltre, hanno anche rilevato la situazione anatomica e fisiologica delle diverse aree cerebrali delle persone con questo disturbo: sono state riscontrate disfunzioni ed alterazioni strutturali in diverse regioni corticali e sottocorticali, prime tra tutte quelle a carico della corteccia prefrontale e dei nuclei della base.

In pratica, sembra che il bambino nasca con una predisposizione a sviluppare i comportamenti problematici tipici del DDAI la cui gravità e tipologia di manifestazione può essere condizionata dalla situazione dell’ambiente in cui il piccolo vive. Infatti, durante l’infanzia la relazione con le figure di riferimento primarie – i caregiver- rappresenta il canale attraverso il quale il bambino sviluppa la consapevolezza dei confini tra il mondo interno e quello esterno. È a partire dalla costruzione dell’intersoggettività che si sviluppa il sé del bambino ed è proprio il linguaggio emotivo di queste relazione che plasma la traiettoria di sviluppo della mente del bambino.

Riguardo all’ambiente è importante considerare la continua influenza reciproca che vi è tra il comportamento del bambino con DDAI e il comportamento delle figure con cui il bambino si relaziona quotidianamente. Prendiamo per esempio una mamma che di fronte ai frequenti atteggiamenti oppositivi del figlio con DDAI sperimenta un alto livello di stress parentale che può spingerla ad adottare delle modalità relazionali più impulsive e disfunzionali con il figlio e che a loro volta possono interferire sulla sintomatologia del bambino peggiorandola. Notiamo come quest’influenza circolare dei comportamenti possa innescare facilmente cicli interattivi disfunzionali nelle famiglie di bambini con DDAI creando un ambiente affaticato caratterizzato da un clima emotivo negativo dove è facile perdersi nella confusione della rabbia e dei sentimenti di rifiuto.

Dinamiche di questo tipo evidenziano l’importanza di alcune nuove linee di ricerca sul trattamento del DDAI che danno particolare attenzione al coinvolgimento dell’intero sistema familiare. Questi interventi non hanno come obiettivo quello di sedare il sintomo del bambino, ma di considerare in un’ottica multifattoriale la sua condizione e promuovere lo sviluppo di competenze individuali in grado di sviluppare una maggiore consapevolezza di sé e dell’altro nella relazione. Tra queste competenze, si sta iniziando a lavorare sempre di più sullo sviluppo della funzione riflessiva del genitore e del bambino con DDAI, ovvero la capacità di comprendere i propri stati interni (pensieri, emozioni, sensazioni) e quelli del proprio bambino nel caso del genitore. Questo processo, che in un primo momento può sembrare di poca rilevanza, è invece estremamente complesso e risiede alla base dello sviluppo di abilità quali la cognizione complessa e l’empatia.

La Germania ha proposto come una nuova possibile soluzione quella di indossare questi giubbotti imbottiti di sabbia, ma forse oltre ai giubbotti bisognerebbe guidare questi bambini fianco a fianco alle proprie famiglie in un percorso di esplorazione della relazione. Permettere al bambino con DDAI di esplorare, all’interno di un gruppo controllato dalla presenza del terapeuta, le relazioni con le proprie figure genitoriali e quelle con altri pari potrebbe avere degli effetti profondi. In un ambiente come questo le proprie emozioni e il senso dei confini personali e altrui vengono ridiscussi per mezzo di un lavoro che passa attraverso il corpo e l’espressione creativa. Questo tipo di percorso potrebbe facilitare lo sviluppo di quei meccanismi psichici legati alla gestione dei propri impulsi restituendo al bambino un senso di identità personale, familiare e sociale.

In fondo, da sempre, il più potente fattore terapeutico del clinico risiede più che nella cura del sintomo, nella sua capacità di rapportarsi con la sofferenza dell’individuo.

Dott.ssa Clarissa Cavallina

Riceve su appuntamento a  Roma
clarissa.cavallina@gmail.com

Per Approfondire:

http://www.aidaiassociazione.com/

Barkley, R. A. (2014). Attention-deficit hyperactivity disorder: A handbook for diagnosis and treatment. Guilford Publications.

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