Affetti e corpo. Di quei buchi simbolici
Una vita sostanzialmente “normale”: una buona adesione al reale, un lavoro soddisfacente, una fitta rete di relazioni. Che ciononostante, a ben guardare, rimangono tutte in superficie. Ci sono pazienti, il cui mondo psichico appare come scollegato da tutto il resto: essi sembrano non entrare mai in contatto con la dimensione squisitamente affettiva della propria esistenza, dimostrando piuttosto di preferirle un andamento più piatto. Quasi meccanico.
Guardando all’indietro, le infanzie di questi pazienti appaiono costellate da episodi ripetuti e precoci in cui il principale adulto di riferimento – la madre – era solito prendersi cura e dedicare una grande attenzione al solo corpo del bambino, lasciando – di contro – cadere nel vuoto ogni componente affettiva che a quel corpo fosse connessa.
Negando l’esistenza del dolore – come pure del piacere – psichico, la figura materna ha così impedito al suo bambino di mentalizzare il proprio soma, d’integrarne funzioni corporee e vissuti emotivi corrispondenti: così, inconsciamente, l’infante è come portato a sperimentare quei dati, pericolosi e indecifrabili poiché privati di senso, come “altro da sé”, se non addirittura di derivazione materna.
Nei pazienti connotati da vissuti tanto angoscianti e traumatici, la vita psichica risulta decisamente scarna di contenuti: ad un’attività onirica pressochè inesistente, si contrappone un assetto psicosomatico che appare preminente. Il ricorso a meccanismi difensivi primitivi è come giustificato da una scissione mente – corpo così radicale da farci ipotizzare che in origine, le esperienze emotive in questi pazienti non siano state semplicemente rimosse, né tantomeno negate, ma che esse siano state addirittura cancellate, abolite dalla memoria psichica in via definitiva. Gli affetti, sono cioè forclusi.
Se nella rimozione – alla base delle nevrosi – è possibile osservare una traccia del contenuto bandito attraverso il ricorso al sintomo nevrotico (che prende il posto della pulsione ripudiata, che non può essere integrata dalla coscienza), nel meccanismo della forclusione, si ha invece una compromissione di base nell’area simbolica.
A difettare, in tali pazienti psicosomatici gravi, è la capacità di simbolizzare l’esperienza, poiché qualcosa, ha precocemente impedito l’accesso alla via del simbolo. E’ come se a mancare fosse il saldo ancoraggio al significante delle cose: difatti, l’esposizione primaria a contenuti affettivi così intensi – avvenuta senza il valido supporto emotivo della madre a sostegno – ha fatto si che essi restassero letteralmente intraducibili. Come se la loro rappresentazione non fosse mai giunta alla psiche.
Emozioni tanto potenti da minare il senso d’integrità dell’Io, hanno prodotto in tali pazienti la necessità di proteggersi dall’angoscia insopportabile, ergendo solide barriere difensive atte a prevenire situazioni di ritorno e rimbalzo potenzialmente distruttive della loro identità. L’evento è perciò cestinato e la sua cancellazione dalla psiche è definitiva.
Ed ecco che, non potendo confidare in alcun passaggio simbolico o traduzione altra, il paziente si trova strenuamente impegnato a svuotare ogni parola del suo significato emotivo, poiché tutto ciò che possiede un contenuto affettivo è suscettibile di esporlo a “luoghi” della mente potenzialmente distruttivi. Ciò rende necessaria l’assunzione di un atteggiamento di estrema cautela col paziente in terapia, poiché il venir meno di difese così rigide potrebbe rivelarglisi destrutturante ed il cui assetto interno in verità si presta poco al cambiamento autentico.
Dietro a tanta durezza albergano timori di natura psicotica, tali da aver indotto Lacan ad attribuire alla forclusione l’origine delle psicosi: causa il mancato accesso all’universo simbolico, l’esperienza mai mediata e registrata, espulsa e rimasta informe, non può che presentarsi al paziente “esternamente” in forma allucinatoria.
Dott.ssa Carmela Lucia Marafioti
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Per Approfondire:
– Mc Dougall J. Teatri del corpo, Raffaello Cortina Editore, Milano (1990)