Slut-Shaming. Quella gonna è troppo corta
Tutti siamo al corrente degli ultimi fatti di cronaca. Una schiera di attrici americane, tra le quali star Hollywoodiane del calibro di Angelina Jolie e Gwyneth Paltrow si sono alzate in difesa dei loro diritti (“Stand up for your rights!” incitava un celebre testo di Bob Marley del 1973) denunciando pubblicamente il produttore cinematografico statunitense Harvey Weinstein per molestie e abusi sessuali. Dopo di loro anche molte attrici italiane, tra le quali la complessa figura della regista e attrice Asia Argento, hanno fatto “coming out”.
A livello di opinione pubblica, la denuncia delle attrici è stata l’occasione per moltissime donne di tutto il mondo di alzarsi in piedi e denunciare anch’esse le molestie e gli abusi subiti almeno una volta nella vita nei contesti più variegati, accomunati da un unico fattore: l’essere donna. Il semplice fatto di essere donna è un fattore che condanna alla possibilità, nella vita, di subire molestie o abusi, fisici, sessuali, economici, sociali. Il corpo della donna solo per il fatto di essere in un luogo pubblico (sia esso un luogo fisico o virtuale) è socialmente legittimato ad essere oggetto di commenti. Come se il semplice fatto di esistere e uscire di casa o avere un profilo sui social sia una condizione sufficiente per essere giudicata, o peggio, mercificata.
Pensiamo al suono di clacson non richiesto e non desiderato per strada al passaggio di una bella donna in segno di apprezzamento. Pensiamo ai commenti immondi sui profili social di politiche, scienziate, opinioniste, che, pur non utilizzando il loro aspetto fisico come mezzo per trasmettere i loro messaggi, vengono mercificate nei commenti del popolo social. Pensiamo ad Angela Merkel, definita “culona inchiavabile” dall’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi, ai commenti che mettono in discussione le denunce per molestia fatte dall’esponente politica Rosy Bindi “impossibile… neanche se fosse rimasta l’ultima donna sulla faccia della terra”, agli auguri di stupro (che rappresentano la nuova moda in termini di “slut-shaming”) fatti all’opinionista e blogger Selvaggia Lucarelli, alla messa in discussione dell’ingegnera e astronauta militare Samantha Cristoforetti. Insomma, le molestie sono diffuse in ogni strato della società odierna, maggiormente facilitate dall’ “invisibilità” o dalla “non immediatezza” dei social (i commenti lasciati sotto una foto, un articolo non prevedono la sincronicità e la reciprocità dei turni di una conversazione).
I social, specchio della varietà e della complessità del mondo in cui viviamo, permettono democraticamente a tutti di far sentire la propria voce, la propria opinione. Se da una parte odio e violenza sono a briglia sciolta, d’altra parte hanno anche permesso la propagazione dell’onda delle denunce per molestie, lanciando addirittura un ashtag “#metoo”, che molte donne in tutto il globo terrestre, di ogni estrazione sociale, provenienza culturale, età, professione, hanno condiviso sulle proprie bacheche, dando l’idea di un fenomeno rappresentato in ogni angolo del nostro pianeta.
Il fenomeno ha portato molti effetti a livello sociale. Negli USA, migliaia di attrici hanno seguito la scia della denuncia. Nella sempre all’avanguardia Svezia, più della metà della popolazione femminile ha pubblicato sulla sua bacheca l’ashtag “#metoo”. Nella puritana Inghilterra, il ministro gallese Carl Sargeant, dopo essere stato denunciato per molestie, è stato costretto a dimettersi dal suo ruolo e da pochi giorni è arrivata la notizia del suo suicidio. La vergogna dell’accusa pendente su di lui non gli ha permesso di fronteggiare le conseguenze delle sue azioni. L’Italia, come spesso accade davanti a questi fenomeni globali, è divisa in due: da una parte ci sono donne che hanno seguito la scia degli altri paesi e hanno coraggiosamente fatto sentire la propria voce denunciando le molestie subite; dall’altre parte c’è invece una grossa fetta di popolazione che ha accusato chi ha fatto sentire la propria voce con argomentazioni come “perché solo ora?”, “siamo sicuri che erano molestie e non avance?”, “quella (riferendosi ad Asia Argento) fa i filmati porno (riferendosi ad alcuni scatti provocatori e sensuali della modella), se l’è andata a cercare”.
Questi commenti non ci fanno forse venire in mente il popolarissimo e aberrante commento “se vai in giro vestita in quel modo, ci credo che ti stuprano”?
Questa pratica, adottata indifferentemente da uomini e donne (ebbene sì, anche donne, aldilà di quello che si potrebbe pensare) rientra nelle condotte definibili come “slut shaming”, una specifica del più ampio “victim shaming”, termine coniato da William Ryan con la pubblicazione nel 1976 del suo libro “Blaming the victim”.
Letteralmente slut-shaming significa “svergognare la zoccola”. Vuol dire in pratica utilizzare elementi relativi alla condotta sessuale di qualcuno, o che rimandano a essa, per svalutare tale persona e imporre un giudizio negativo. La sessualità è un campo talmente vasto, che investe così tanti aspetti della persona, che anche lo slut-shaming può prendere molte forme, consapevoli e inconsapevoli: può colpire una persona appoggiandosi al modo di vestire, alla salute, all’aspetto fisico, all’orientamento sessuale, alla sua storia relazionale, ai suoi hobby. Può colpire le vittime di reati e abusi con il commento citato sopra “se l’è cercata”. Si tratta di una pratica che ha radici storiche profondissime che certamente il presente articolo non ha l’ambizione di spiegare in maniera esaustiva. Il tentativo è però quello di fare chiarezza su questo concetto, di cui tutti abbiamo esperienza, e che spesso (a causa di tutta una serie di condizionamenti culturali che “normalizzano” questa pratica) tendiamo a minimizzare.
Secondo quanto afferma Ryan nel suo scritto, i responsabili colpevolizzano le vittime per giustificare le loro azioni, al fine di evitare la punizione e mantenere la libertà di abusare nuovamente di loro in futuro. Tale giustificazione sembra derivare da un “senso di diritto” manifestato dai carnefici, nonché dal loro desiderio di avere potere su altri. Un esempio di questo comportamento si verifica quando le persone cercano di giustificare il razzismo contro le persone che hanno un colore della pelle diverso.
Il concetto di victim blaming è stato ripreso in ambito legale, in particolare in difesa delle vittime di stupro accusate a loro volta di aver causato o favorito il crimine subito. Il tentativo di rendere la vittima colpevole di ciò che le è accaduto si riscontra, infatti, con maggiore frequenza nei crimini a sfondo sessuale e nei cosiddetti “crimini d’odio”.
Lo slut-shaming tende a colpevolizzare dei comportamenti che non si adeguano a una norma percepita e culturalmente imposta, e colpisce soprattutto le donne perché, storicamente e normativamente, sono coloro che hanno avuto e hanno meno libertà sessuali. Ma come è possibile che un comportamento privato, come la vita sessuale di una persona, debba diventare un’arma contro la sua affermazione dei diritti?
Lascerei questa domanda provocatoriamente aperta, concludendo con le parole di Asia Argento, la cui vicenda, dopo gli ultimi accadimenti, è diventata simbolo della lotta femminista italiana contemporanea. “Abbiamo ricevuto così tanti condizionamenti, che, come donne, non realizziamo nemmeno di essere vittime di molestie. La gente dice “oh, sta solo toccando le tette”, ma questa è una cosa molto grave per me. Non è normale. Non puoi toccarmi, non sono un oggetto, tantomeno tua!”
Riceve su appuntamento a Perugia
Per Approfondire:
Ryan W. (1976) Blaming the victim.
Scaioni D. (2017) Divagazioni in tema di genere.