Il Butoh. La danza delle tenebre
Un uomo nudo danza, con il corpo completamente ricoperto di pittura bianca. Le membra scosse da tremori sincopati e dolenti. La mimica del suo viso si tende, digrigna i denti, soffre, mentre ogni muscolo del suo corpo si contrare in spasmi ritmici che compongono la danza delle tenebre.
Il butoh nasce in Giappone, tra gli anni cinquanta e sessanta grazie agli sforzi di Tatsumi Hijikata, e Kazuo Ohno. In origine il movimento artistico del Butoh si caratterizzava per il suo aspetto provocatorio, mettendo in scena tabù sessuali, una rappresentazione grottesca, decadente, mortifera eppure umoristica, in cui il corpo è sempre al centro della scena. L’attore è organico, amplia il concetto di danza trascendendo il concetto di estetica, diventando egli stesso luogo della rappresentazione drammatica.
Per molti il Butoh rappresenta un “grido primordiale che annienta e vanifica ogni norma, la trasformazione e la metamorfosi della ribellione del corpo naturale contro la violenza della cultura, che porta alla luce pure visioni dal subconscio sostenute unicamente dall’urgenza del desiderio e dell’istinto primitivo.
Questo movimento artistico che esalta la capacità del corpo di rappresentare il dramma della vita umana, in costante conflitto tra natura e cultura, esalta il legame viscerale con il mondo, andando a pescare i propri rimandi e simboli nel patrimonio dell’inconscio collettivo. Secondo molti sostenitori di Grotowsky il Butoh e il suo impegnativo training rappresenta una modalità per esplorare e integrare la dimensione psicosomatica. Nella danza del Butoh l’attore è rivolto verso l’interno di sé, e vibrando crea un nuovo spazio onirico in cui la presenza umana sembra combattere con la sua natura caduca e mortale. Cifra stilisti del Butoh è sperimentare difersi tipi di esistenza, l’utilizzo dinamico del vuoto, l’improvvisazione, la surrealtà, la nudità, e la pittura del corpo.
Il Butoh persegue il fine di unire il danzatore e il luogo in cui avviene la danza, unione che ha sede nel corpo. Per questo il Butoh non avveniva in origine in luoghi specifici, ma era improvvisato per strada, e in ogni tipo di luogo in cui potevano essere coinvolte più persone. “La proposta del butô e del Nô ha una concordanza radicale: chi pratica queste vie si interroga sulla costrizione del presente. Di istante in istante ad occhi aperti mette in scena l’ineluttabile: una mano, un uomo, una donna, una storia, la vita. Un gesto solo. E la scintilla che di questo è cosciente.”
Ôno dice al riguardo: “come danzatori noi non possiamo non porci la questione: cosa sia la realtà?” Hijikata Tatsumi riteneva che: “Persino le vostre stesse braccia, profondamente ancorate nel vostro corpo, le sentite estranee a voi stessi, sentite che non dipendono da voi. Qui giace un importante segreto. L’essenza radicale del butô è nascosta qui.” Un braccio può bastare, per dire tutto. Il singolo atto dello stare al mondo, inteso in senso letterale, diviene un atto di ribellione di fronte al caos del mondo, dinanzi alla sovrastrutture culturali, e può, di per sé, diventare un manifesto di esistenza e ribellione. Nel Butoh contemporaneo, presso la scuola Ôno, chi desidera diventare un danzatore deve passare cinque anni ad esercitarsi solo per camminare, e anni per imparare a stare fermi.
Vorrei citare le parole di Bateson, ricordando che anche quando siamo immobili, intenti in una conversazione, non comunichiamo solo con le parole, ma con gesti, sguardi, toni e silenzi. “Una lingua è prima di tutto un sistema di gesti. Le parole furono inventate molto più tardi.” In questo senso il Butoh è una comunicazione protolinguistica, psicosomatica, capace di comunicare l’inquietudine dell’esistenza umana senza bisogno di ricorrere alla comunicazione verbale.
Riceve su appuntamento a Roma e Villanova
Per Approfondire:
Salerno Giorgio, Suoni del corpo, segni del cuore. La danza butô tra Oriente e Occidente, Costa & Nolan, Genova-Milano, 1998
Watanabe Tamotsu, La danza giapponese, pp.29, Ali&no Editrice, Perugia, 2001
Zeami Motokiyo, Il segreto del teatro Nô, Milano, Adelphi Edizioni, 1966