Il cammino di Santiago. Un’agognata metamorfosi
Il rito del cammino di Santiago risale al IX secolo. La leggenda narra che un eremita, avvertito da un angelo, vide delle strane luci che assomigliavano ad un campo di stelle (Campus Stellae, Compostela appunto) sulla collina dove sorgevano i resti di un antico villaggio celtico. Il vescovo Teodomiro, interessato a quello strano fenomeno, ordinò di scavare nel punto indicato dalle stelle, dove vennero scoperte le reliquie ritenute appartenenti a San Giacomo (Santiago appunto), l’apostolo di Gesù. A partire da quel momento credenti da tutti il mondo intrapresero il loro pellegrinaggio per raggiungere le spoglie del santo e il cammino tra i secoli X e XIII visse il suo periodo d’oro. Con l’avvento del Protestantesimo che metteva in crisi i valori fondamentali della fede popolare, e le frequenti guerre europee che rendevano pericoloso l’arrivo in Galizia, lentamente calò il sipario sul cammino di Santiago, fin quando negli anni ’70 il parroco di una delle località sulla via composteliana partì con il suo furgone carico di barattoli di vernice per segnare con frecce gialle, oggi simbolo del cammino, la via ormai dimenticata. Dopo essere stato ricordato da Papa Giovanni Paolo II nel 1982 ed essere stato considerato primo Itinerario Culturale Europeo nel 1987, nel 1993 il Cammino di Santiago è stato dichiarato Patrimonio Culturale dell’Umanità dall’Unesco e ad oggi 270.000 persone, tra cui moltissimi italiani, secondi solo agli spagnoli, ogni anno intraprendono l’antico pellegrinaggio per arrivare a Santiago.
I numeri parlano chiaro: quella del cammino di Santiago è una vera e propria tendenza negli ultimi anni. Ma che senso ha fare un pellegrinaggio nel 2016?
Il pellegrinaggio è una pratica devota antichissima che consiste nel recarsi da soli o in gruppo presso un luogo sacro per compiervi speciali atti di devozione. Si cammina per espiare le proprie colpe, addirittura sul Cammino di Santiago “bastano” 100 chilometri a piedi e 200 chilometri in bici o a cavallo per ricevere la “Compostela”, l’attestato ufficiale del pellegrino sulla carta, l’avvenuta espiazione delle proprie colpe a livello simbolico.
Ma, lasciando da parte la motivazione religiosa, cosa significa purificarsi camminando, da un punto di vista psicologico?
Forse significa dare la meritata centralità al corpo, costantemente inascoltato nella vita quotidiana, presi come siamo da tutta una serie di incombenze che meritano la priorità. Sul cammino il corpo è invece lo strumento privilegiato attraverso il quale misuriamo noi stessi, i nostri punti di forza e i nostri limiti. È quello che ci permette di andare avanti, perché tonico, riposato, in forma. È quello che ci intima di fermarci, perché stanco, ammaccato, dolorante. È quello che finalmente si fa sentire perchè ci poniamo in posizione di ascolto. Ed ecco che sul cammino non c’è spazio per il male psicosomatico, per quel termine abusato nella vita quotidiana, lo “stress”. Ecco che la caviglia mi fa male perché ho preso una storta, che il tendine mi fa male perché ho camminato nonostante fosse infiammato, che il ginocchio mi brucia perché me lo sono sbucciato. Il dolore fisico finalmente corrisponde al dato di realtà, non alla proiezione su un organo di un dolore psichico inascoltato (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “Somatizzazione e Psicosomatica – Se solo si potesse pensare” della rivista di Febbraio 2016).
Camminare significa faticare, stancarsi, sudare. E sudare rappresenta simbolicamente una purificazione. Sudando, il nostro corpo elimina tossine dannose per l’organismo. Ma insieme alle tossine, sudiamo via anche le dimensioni tossiche della nostra vita quotidiana, quelle di cui avevamo bisogno di liberarci, quelle che solo attraverso un forte sovvertimento della quotidianità così lontana dalla quotidianità “occidentale”, potevano essere sradicate.
Molte persone intraprendono il cammino per poter completare il rito di passaggio della rinascita (per un approfondimento si rimanda all’articolo “Il rito del Bunjee Jumping – Il riscio di morte come rinascita” della rivista di Gennaio 2015). Non sono dunque più le motivazioni religiose, all’origine di questo cammino, a spingere questo fiume di persone a intraprenderlo. Quando si sceglie di intraprendere il cammino, non lo si può improvvisare: sè necessario pianificarlo, procurandosi l’attrezzatura necessaria, allenandosi etc. La programmazione di quest’azione rappresenta di per sé la messa in moto di un cambiamento, in genere successivo ad una fase di stallo. Mi viene da fare un’associazione con i pazienti che noi psicologi incontriamo nell’attività clinica: si recano dallo psicologo come “ultima spiaggia” per risolvere una problematica non più ignorabile. Prima di poter ripartire, attraversiamo insieme ai nostri pazienti una lunga fase in cui stiamo sul fondo, una fase di profondo dolore, necessaria al successivo cambiamento, ma faticosa da attraversare e che sempre lascia la sensazione di non avere una via di scampo. Spesso le persone che intraprendono il cammino lo fanno dopo un grande dolore, come un lutto, la fine di una relazione, la perdita del lavoro, dopo una lunga depressione, oppure semplicemente per capire cosa fare della propria vita. La scelta di fare il cammino per poter cambiare le carte in tavola implica che la persona ha già affrontato la fase del dolore, del fondo, dello scavare: ormai si può solo ricominciare a salire. E questa è la sensazione che si avverte lungo il cammino: un’energia positiva di rinascita in cui ogni persona viene rinforzata positivamente nel suo percorso da tanti estranei dai quali si fa vedere più nuda che mai.
Ed è attraverso il sudore, i dolori muscolari, gli ostacoli da superare che il rito di passaggio può compiersi, che il cambiamento può avere luogo, che il viaggiatore al suo arrivo a Santiago può far morire la vecchia parte di sè e finalmente compiere la sua metamorfosi, trasformarsi, acquisire occhi nuovi (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “Il viaggio – Sul bisogno di occhi nuovi” della rivista di Marzo 2015).
È la destinazione a distinguere il pellegrinaggio dal vagabondaggio: il vagabondo vaga, senza una meta, accoglie ciò che trova giorno dopo giorno, il senso viene definito quotidianamente, la prospettiva futura è messa in secondo piano dalla prepotenza dell’oggi e del carpe diem. Il pellegrino invece ha una meta, uno scopo, il senso è definito all’interno di un intervallo che va da quello che io vorrei realizzare, a quello che riesco a realizzare. Il pellegrino si misura continuamente con i propri limiti e i propri punti di forza, che possono facilitarlo o ostacolarlo nel raggiungere un proprio obiettivo.
Un altro elemento terapeutico del cammino è rappresentato dal poter avere tanti specchi di sé e potersi specchiare in tanti altri-da-sè, quanti sono gli sconosciuti compagni di viaggio che ogni giorno si incontrano e con i quali si raggiunge un contatto profondo nonostante le barriere linguistiche. La ricchiezza risiede nella completa mancanza di differenze di genere, età, provenienza o classe sociale, poiché principi e re hanno lo stesso abbigliamento, percorrono la stessa strada, vedono le stesse cose, affrontano le stesse difficoltà, dormono in letti vicini, condividono lo stesso bagno. E questo appianamento delle differenze permette di abbassare le barriere che quotidianamente innalziamo nei confronti dell’altro, toccando livelli di intimità e solidarietà impossibili nella vita reale. Sì, perché la sensazione è vivere all’interno di una parentesi, una pausa dalla vita quotidiana, una sorta di stazione di servizio, da cui prendere quanto più carburante possibile, per poi tornare ognuno alla propria quotidianità, che sia una vecchia quotidianità con una nuova consapevolezza, o un nuovo equilibrio dopo le trasformazioni necessarie.
Il cammino impone inoltre un ritorno all’essenza, un passaggio dal superfluo, all’utile, fino ad arrivare all’indispensabile. Tutto ciò che serve per il proprio viaggio sta sulle proprie spalle, proprio come il guscio di una tartaruga, e ci accompagna in ogni istante della vita quotidiana. Pertanto, il bagaglio deve essere leggero, deve facilitare il viaggio. Questo ritorno all’essenza fa sì che il cammino di Santiago venga considerato come una metafora del cammino della vita, un momento in cui ristabilire le proprie priorità, fare i conti con se stessi, con il proprio corpo, con i propri silenzi, con i propri limiti e la propria volontà, con l’altro in quanto straniero, in quanto amico, in quanto specchio, con la natura che ci circonda e dalla quale le sovrastrutture delle moderne città tendono ad allontanarci. Insomma il cammino come metafora di vita è uno spartiacque, la possibilità di una rinascita, di una metamorfosi, di un cambiamento, che passa attraverso il lutto e il dolore per la perdita di alcune parti di sè.
“Improvvisamente mi sorprendo felice, di una felicità che non costa nulla e non ha un perché. Forse l’erba sotto i piedi, l’ombra avvolgente del noce, un filo steso al sole battente, il sorriso degli altri pellegrini affaccendati. Cose semplici. Talmente banali che quasi mi sento in colpa per questa gioia così netta e indiscutibile.”
(Riccardo Finelli)
Dott.ssa Giulia Radi
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Per Approfondire:
Kafka F. (1915) La metamorfosi.
Finelli R. (2014) Destinazione Santiago. Come ritrovare se stessi durante il cammino. Sperling & Kupfer Editore
Bocca F. (2016) L’emozione a ogni passo. Giunti Editore
Ipsale W. J. (2016) La soledad compartida. (edizione indipendente)