Un infinito Addio
Dalla diagnosi di un male incurabile alla separazione
“La vita è una condanna a morte.E proprio perché siamo condannati a morte bisogna attraversarla bene, riempirla, senza sprecare un passo, senza addormentarci un secondo, senza temer di sbagliare, di romperci, noi che siamo uomini, né angeli né bestie, ma uomini. ” Oriana Fallaci
La morte è una certezza che proviamo a nasconderci per tutta la vita. Nei pensieri e nelle azioni quotidiane allontaniamo l’idea di morte, rimuovendo dalla coscienza il nostro essere mortali per poter vivere. Pensiamo inconsapevolmente alla morte come l’esatto opposto della vita, quando (riflettendoci) il contrario di morire è semplicemente nascere e non vivere… vivere rappresenta tutto ciò che riusciamo a fare fra un inizio ed una fine, la modalità in cui riusciamo a riempire a nostro modo momenti di solitudine e di compagnia. È faticoso pensare razionalmente alla vita come un’opportunità di viaggio con data di arrivo sconosciuta. È spaventoso affrontare la vita con la consapevolezza di non averne abbastanza controllo. Siamo profondamente spaventati dall’essere impotenti, in fondo, che molto spesso non riusciamo neanche a pensarlo.
Dalla paura di questa impotenza nasce la “naturale” negazione della morte, ovvero ciò che ci permette di vivere ogni giorno con la convinzione che la strada da percorrere sia ancora lunga. (per maggiori approfondimenti si rimanda all’articolo “I meccanismi di difesa- quei garanti della sopravvivenza”) Una difesa comune che tende ad affievolirsi con il passare del tempo, quando gli anni e la maturità costringono ad affrontare il proprio essere fragili, vulnerabili e mortali… È durante la vecchiaia o una grave malattia vissuta in prima persona o attraverso gli occhi di un caro che strutturiamo la nostra idea di morte, un’idea che ha poco di razionale e cosciente e che racchiude in sé un insieme di speranze, valutazioni, paure…La morte diviene, infatti, “pensabile” (ma non “capibile”o “affrontabile”) nel momento in cui si presenta un rischio concreto, un dato di realtà, una possibilità effettiva di morire o di veder morire una persona amata. La morte esiste, dunque, quando è impossibile negarla. Dal momento della diagnosi di una malattia incurabile, viene segnata un’ipotetica fine e le persone coinvolte iniziano a crearsi propri pensieri irrazionali sulla morte, basati su una personale percezione del dolore.
Viene definito “lutto anticipatorio” il vissuto di dolore sperimentato da pazienti e familiari nella fase di vita tra la scoperta della minaccia di morte e l’effettivo distacco. Abitualmente identifichiamo con la parola “lutto” l’insieme di emozioni sperimentate nella fase successiva alla perdita di una persona cara (per maggiori approfondimenti si rimanda all’articolo “il lutto- della morte e di altre perdite”). Di fronte ad una diagnosi di male incurabile, però, si accede ad un dolore analogo prima dell’effettiva separazione, quando il paziente è ancora in vita, ma sta “andando via”… È il caso di alcune realtà oncologiche in cui vi è diagnosi di cronicità per la presenza di situazioni metastatiche gravi (per maggiori approfondimenti si rimanda all’articolo “La malattia oncologica- Il male senza nome ) e di patologie degenerative come il disturbo di Alzheimer, in cui si affronta un periodo di malattia molto spesso prolungato e caratterizzato da un graduale e progressivo cambiamento anche della personalità del paziente (per maggiori approfondimenti si rimanda all’articolo “La demenza di Alzheimer- Silenzi e fili di memoria perduti).
Nel percorso di malattia si affrontano giorno per giorno nuove e progressive perdite, perdite di funzionalità, dell’immagine e dell’integrità del proprio corpo e dei ruoli sociali e familiari che il paziente rivestiva in precedenza. Il lutto anticipatorio è un vissuto che ha bisogno di tempo per essere elaborato sia dal paziente che dalle persone vicine; il modo in cui esse sapranno o non sapranno dirsi addio durante il lungo periodo di malattia sarà lo specchio di come affronteranno la morte. L’elaborazione del lutto anticipatorio segue, dunque, le stesse fasi del lutto post-mortem e lo condiziona: si passa da una fase di negazione della malattia, alla rabbia, alla disperazione e in ultimo (quando possibile) all’accettazione della futura morte. Prendere coscienza che nulla potrà essere più come prima è il necessario e doloroso compito che familiari e pazienti dovranno svolgere per preparasi alla separazione.
Non possiamo conosce a priori il modo in cui un paziente può rispondere psicologicamente alla diagnosi di malattia degenerativa o cronica con poche speranze di sopravvivenza, poiché abbiamo da tenere in considerazione come variabili le caratteristiche di personalità e lo stato di coscienza in cui vive. Anche se non avessimo esperienza psicologica, però, potremmo elencare emotivamente un insieme di reazioni possibili. Pensiamo all’ansia, alla paura, all’insonnia, alle somatizzazioni, alla depressione, sin’anche all’insorgenza di idee suicidarie. Queste ed altre reazioni rappresentano una novità nella mente del paziente che lo spingono quasi nell’immediato a modificare le proprie abitudini. Egli tenderà sempre più al ritiro sociale e all’attitudine a dipendere dagli altri prima come forma di protesta, poi come richiesta d’aiuto.
Sappiamo che quando un male incurabile si affaccia nella vita di una persona vengono colpiti anche tutti coloro che fanno parte di lui/lei. Osservare una persona “andar via”, rappresenta un’esperienza straziantemente dolorosa. C’è chi tende a concentrarsi su aspetti pratici dell’assistenza, come l’organizzazione delle visite mediche, la cura ossessiva del corpo del malato o della sua alimentazione, in un tentativo disperato di negare l’angoscia della sua morte; chi si chiude in casa con lui e, attraverso un movimento simbiotico generato dai sensi di colpa di essere “sano”, decide di ritirarsi dalla socialità… Il supporto al familiare è centrale per alleggerire il carico emotivo e migliorare l’elaborazione del lutto anticipatorio anche nel paziente, ma viene spesso messo in secondo piano nei percorsi di cura. Si tende a concentrarsi sull’urgenza della patologia, ovvero sulla cura del paziente negli aspetti concreti e astratti del suo malessere. La malattia, in realtà, non appartiene solo al malato, fa parte dell’intero sistema che lo avvolge: stress, smarrimento e solitudine sono sensazioni che pervadono ogni persona coinvolta. La solitudine emotiva, in particolar modo, è un vissuto comune ad entrambi che non dipende dalla presenza fisica della persona amata; nasce dal prendere coscienza che “si è insieme, ma non lo si è più come prima…”
La ricerca scientifica sul lutto anticipatorio documenta che quanto si verifica durante il periodo dalla diagnosi alla separazione può significativamente migliorare la qualità della vita di colui che sta per morire, così come quella del familiare dopo la morte: favorendo il percorso di elaborazione nel pre, si favorisce anche l’elaborazione nel post-mortem. Nasce la necessità di individuare interventi terapeutici di supporto in questa fase in cui i partecipanti mettono in gioco la propria paura dell’ ignoto, in un percorso di accettazione della ricchezza del proprio essere impotenti.
Le nostre esperienze di vita, la nostra cultura e la religione possono aiutarci, in un qualche misura, a dare un significato all’idea della morte. Ma essa rimane inconoscibile. Possiamo osservare il processo del morire, ma non conoscere a pieno cosa rappresenti la morte. Ciò genera in ognuno di noi un’angoscia normale e poter esprimere le proprie paure a riguardo è sicuramente una grande conquista. Chi è affetto da malattie croniche o degenerative (così come le persone che fanno parte della sua vita) tende, infatti, a negare ogni aspetto negativo della malattia e la normale paura della fine e della separazione. Il processo di elaborazione di un lutto ha bisogno di passare attraverso l’abbandono di costruzioni di onnipotenza. Per chi è in grado di chiedere aiuto sarà meno faticoso accedere a questa dimensione e sperimentare la ricchezza nell’essere impotenti, ovvero il poter vivere ed ammirare a pieno ogni singolo istante. La fine è una certezza, si, ma è nostro compito viverla non da bestie o da angeli, ma da uomini dandoci la possibilità di non sfuggire alle nostre emozioni.
Dott.ssa Emanuela Gamba
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Per Approfondire:
Campione F. “Il deserto e la speranza. Psicologia e psicoterapia del lutto”, Armando Editore, 1990.
Bellani M.L. “Psiconcologia” Edizioni Masson, 2002
Theut S.K, Jordan L.(et al.) “Caregiver’s Anticipatory Grief in Dementia: A Pilot Study”. International Journal of Aging and Human Development. 1991
“Non è mai troppo tardi” film di Rob Reiner del 2007.
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