Sindrome di Hikikomori. Al di qua della stanza
A casa loro è scesa la sera già da un po’ e i genitori di Leo sono in procinto di mettersi a tavola per la cena. Lui, invece, non ci sarà. Il suo ritmo sonno – veglia è decisamente invertito. Nei mesi, la sua assenza si è fatta consuetudine ed entrambi sembrano ormai come tristemente rassegnati all’idea di non incrociarlo più per casa. Neppure per sbaglio.
Dopo le timide e ripetute opere di convincimento dei primi tempi, puntualmente rivelatesi tutte fallimentari, la madre del ragazzo ha ben pensato di assicurargli almeno un pasto decente al giorno, cosa che fa poggiando in terra un ampio vassoio di cibo, proprio dietro la porta della sua camera. In realtà, Leo consuma il suo pasto in solitaria solo parecchie ore più tardi, quando le mura di casa sono totalmente avvolte dal silenzio della notte e lui può sentirsi libero di sgattaiolare fuori dal suo mondo senza il rischio d’incrociare disgraziatamente lo sguardo dei suoi. Leo è probabilmente uno fra i molteplici esempi di giovani vittime di un fenomeno che ormai (anche) nel nostro paese sta’ prendendo via via sempre più piede: la sindrome di Hikikomori.
Per cogliere l’origine di questo disturbo è necessario trasferirci idealmente e temporaneamente in Giappone, ove il fenomeno vanta numeri da capogiro, che sembrano destinati ad aumentare e che solo lì arrivano a toccare 1 milione di persone. Il termine “hikikomori” (“isolarsi, restare in disparte”) – con cui oggi ci si riferisce tanto al fenomeno quanto ai soggetti che ne sono coinvolti – risale alla seconda metà degli anni ’80, quando lo psichiatra che lo coniò, Tomaki Saiko, spostò la sua attenzione su una certa categoria di adolescenti e giovani adulti – di età compresa fra i 14 e i 18 anni specie di sesso maschile – che, fra i sintomi principali, presentava da almeno 6 mesi un isolamento sociale massiccio e l’assenza di relazioni interpersonali significative. La prima forma di ritiro interessava il contesto – scuola: dall’abbandono scolastico si passava poi ad un isolamento ben più estremo, che si espletava nel rifiuto di ogni scambio o contatto con l’esterno, finanche esteso alle figure genitoriali.
Le cause di un simile disagio, intuitivamente, non sono di certo riconducibili ad aspetti facilmente isolabili e circoscritti, ma di contro, vanno rintracciate anzitutto nella struttura socio – culturale giapponese, di tipo piramidale e orientata in senso profondamente collettivistico; il polo autoritario si sposta dal soggetto al gruppo. In un simile contesto, le pressioni sociali sono altissime: l’adesione al gruppo dei pari, la cooperazione con esso e la piena conformità al rigido sistema normativo sotteso al gruppo stesso rappresentano un valore aggiunto, al punto da dettare la costruzione dell’identità nell’adolescente (per un approfondimento, si rimanda all’articolo: “Idendità – Come si risponde alla domanda “chi sei?”) . A lui, non resta che sperare di uniformarvisi in tutto e per tutto; solo così potrà garantirsi una valutazione esterna positiva e senza macchia. Solo così, potrà ritagliarsi un posto nel mondo. Tuttavia, quando in questa stessa società la diversità del singolo adolescente arriva a scontrarsi con standard così elevati ed al contempo percepiti come inconciliabili col proprio ideale, l’identificazione col gruppo dei pari non è possibile ed il rifiuto di quella realtà esterna tanto lontana dalla propria visione del mondo si rende necessaria come unica forma di ribellione ostinatamente silenziosa, ovvero come manifestazione di un disagio soggettivo ad ampio raggio.
Così, non potendo rispecchiarsi in un simile modello societario, il giovane adolescente giapponese, sentendosi “tagliato fuori”, a sua volta, decide di tagliare con esso ogni rapporto, optando per un percorso sovversivo, alla ricerca di una qualche forma di identità: il ripudio di quel mondo esterno ed il disgusto per tutto ciò che lo ispira lo portano a rintanarsi nell’unico universo per lui possibile. Virtuale. Questo contesto – altro è scelto deliberatamente e diventa il luogo esclusivo in cui si intessono tutti i suoi pseudo – rapporti e sui quali poggia la sua identità virtuale, labile e fittizia. La sua è un’interazione protetta con l’altro (di cui, in fondo, ha profonda paura) ed in cui un semplice schermo è in grado di ripararlo da esposizioni potenzialmente rischiose. Accanto al rifiuto e al disprezzo di quei principi che muovono la società in cui è immerso, il giovane sembrerebbe mosso anche da un sentimento di vergogna, in misura proporzionale al divario percepito fra il mondo reale ed il mondo che si era immaginato. Il giovane hikikomori verrebbe rimproverato proprio a causa di quella sua tendenza all’isolamento, che è essa stessa fonte di vergogna per i familiari, attenti al giudizio espresso dalla collettività: con ciò, la reclusione già ricercata dal giovane continua ad auto – alimentarsi, e rischia di portarlo a sviluppare depressione, paranoia, disturbi ossessivo – compulsivi.
Il fenomeno dell’hikikomori è stato spesso associato e confuso con la più generale dipendenza da internet – con cui condivide l’uso eccessivo del pc e delle nuove tecnologie – ma è bene ricordare che nel primo caso il mondo reale viene interamente sostituito da quello virtuale, che si pone come l’unica pseudo – modalità comunicativa concepita e tollerabile dal giovane che ne è colpito (per un approfondimento, si rimanda all’articolo: “Internet Addiction – Un’Arma a doppio taglio”) ; egli non chiede aiuto, non si aspetta aiuto da nessuno, nè ne sente il bisogno, vivendo pertanto la sua reclusione volontaria in modo egosintonico. Il fenomeno nel suo insieme ha assunto proporzioni preoccupanti anche fra i giovani italiani – che attualmente si stima siano oltre 30 mila. Posto che l’esatta rilevazione del numero di ragazzi che sceglie la via dell’auto – segregazione è un compito arduo, causa la natura “sotterranea” del fenomeno, s’intuisce come essi possano facilmente vivere del tutto indisturbati e protesi nel silenzio, all’ombra di un semplice schermo.
Dott.ssa Carmela Lucia Marafioti
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Per Approfondire:
Ricci C., Adolescenti in volontaria reclusione, Franco Angeli, Milano, 2008
Sagliocco G., (a cura di) Hikikomori e adolescenza. Fenomenologia dell’autoreclusione. Mimesis, Milano, 2011