E’ solo un gioco. Le prime forme di gioco

Alice è una bambina di cinque anni. Durante la ricreazione, mentre giocava in giardino è caduta dallo scivolo sbucciandosi un ginocchio. Le maestre dopo averla consolata hanno provato a metterle un cerotto, ma lei, troppo triste, non l’ha voluto. Il giorno seguente, tornata a scuola, la prima cosa che la bambina ha fatto è stata quella di chiedere alle maestre un cerotto per la sua bambola che aveva fatto la “bua”.

Il gesto che ha fatto Alice può sembrare insensato e privo di significato, ma provando a vedere cosa c’è dietro quella richiesta avanzata sotto forma di gioco è possibile scoprire un mondo fatto di fantasia, di simboli, di sogni e di magia.

Il gioco è una delle esperienze più belle e importanti che ogni persona vive, si sviluppa già in tenerissima età e molte persone lo conservano per tutta la vita facendogli assumere altre forme e nuovi significati.

E’ un processo che facilita lo sviluppo di abilità personali e psicologiche, aiuta a padroneggiare competenze sociali, di abilità intellettive ed emozionali e vede coinvolto anche un insieme di fattori utili per lo sviluppo psicomotorio. Il bambino già durante i primi anni di vita tende a privilegiare l’attività ludica, vista come uno strumento attraverso il quale poter esplorare il mondo che lo circonda e poter ricreare e controllare situazioni per lui frustranti e difficili da gestire. In questo modo può intervenire in modo attivo su oggetti, persone o situazioni, cosa che nella realtà è difficile o impossibile fare. 

Durante i primi due anni di vita, il bambino svolge semplici attività, come afferrare un oggetto, agitare mani e piedi, sfilarsi un calzino ecc.: attività semplici che hanno l’obiettivo di renderlo consapevole di essere la causa di un qualcosa. Questa fase è stata definita da Piaget “gioco di esercizio”. L’esplorazione è alla base del gioco e in questo modo i bambini si sperimentano come piccoli scienziati alla scoperta di oggetti, forme, suoni e sensazioni nuove; normalmente il bambino lo svolge da solo senza interagire con altri: prima dei due anni infatti è difficile vedere due bambini giocare insieme.

Con la crescita le cose cambiano, il bambino ha bisogno di più stimoli per potersi divertire: non si accontenta più di una semplice campanella da suonare in continuazione, ha bisogno di sperimentarsi in un mondo diverso da quello reale, un mondo fatto di finzione, fantasia e apparente spensieratezza. Sto parlando del gioco simbolico o del “far finta”: in questo caso il piccolo tende a ripetere schemi comportamentali utilizzando, però, situazioni immaginali ed oggetti nuovi ai quali attribuisce un significato proprio che non corrisponde per forza alle loro funzioni reali.

Mi spiego meglio: sicuramente vi sarà capitato di vedere un bambino afferrare un oggetto qualsiasi e portarlo all’orecchio facendo finta di parlare al telefono, scena sicuramente simpatica e divertente che nasconde al suo interno significative sfaccettature. In questo modo sta iniziando a sperimentarsi in una realtà diversa rispetto a quella nella quale ha vissuto fino a quel momento, una realtà sociale. Inizia anche a giocare con altri bambini cercando di trovare una sua posizione nel mondo che lo circonda.

Attraverso il gioco simbolico mette in scena una moltitudine di situazioni vissute nella quotidianità, solo che in questo caso ha il potere di controllare gli eventi e può mettersi dalla parte del personaggio tanto temuto, come avviene ad esempio quando gioca al dottore. Ha inoltre la possibilità di suggerire idee e strategie nuove senza imporle e può aiutare a tollerare meglio alcuni tipi di regole sociali. Ha una funzione compensatrice che consente di realizzare ogni desiderio liberando la fantasia dalla realtà, allevia la frustrazione nata dai “no” degli adulti, aprendo quindi una finestra sul mondo interiore del bambino.

E’ una forma di linguaggio chiaro e inequivocabile con il quale il bambino si esprime e ci mostra il proprio mondo interiore, tanto che nella psicoterapia con i bambini piccoli è la strategia più utilizzata. Il terapeuta attraverso l’osservazione dovrebbe essere in grado di leggere le attività ludiche del piccolo paziente ed inoltre gli dà la possibilità di entrare in relazione con lui “giocando insieme”, così da poter istaurare un’alleanza.

Verso i tre anni il gioco assume un’altra forma, i bambini iniziano a giocare con altri bambini, creano regole nuove e iniziano ad utilizzare la fantasia (gioco di finzione); amano creare nuovi personaggi e nuove situazioni. Le nuove regole non sono caratterizzate da rigidità, ma possono essere modificate nel corso del gioco senza alcuna conseguenza per nessuno.

Altro aspetto importante da sottolineare è l’assenza di conseguenze come punizioni reali, da cui nasce infatti la frase che ognuno di noi ha detto almeno una volta nella vita: “ma è solo un gioco”. E’ come se nel gioco tutto sia permesso, i personaggi possono scambiarsi i ruoli in ogni momento, è possibile indossare maschere, ma è altrettanto possibile liberarsi da queste ultime. In tal modo è possibile sperimentare una moltitudine di comportamenti e di ruoli, offrendo un valido aiuto nella strutturazione dell’identità e dell’affermazione di sé. Come afferma Piaget  “Nel gioco simbolico l’io prende la sua rivincita sugli angosciosi problemi quotidiani dell’adattamento al reale, o perché immagina per essi soluzioni accettabili o perché addirittura semplicemente li abolisce”.

Anche i giochi apparentemente aggressivi, come il fare la lotta, rotolarsi per terra e rincorrersi, rivestono un importante funzione per i bambini perché danno loro la possibilità di scoprirsi e misurare la propria forza capendo fino a che punto possono o non possono arrivare. Se effettivamente stanno giocando, raramente arriveranno a farsi del male e comunque non sarà difficile capire quando invece fanno su serio.

Durante la fine dell’età prescolare, invece, il gioco assume ancora un’altra forma: la regola è alla base dell’attività ludica, deve essere comunicata, conosciuta e accettata da tutti i partecipanti. Qui nasce la competizione che spinge il bambino a impegnarsi al meglio delle sue possibilità per poter vincere e magari ricevere un premio. Di conseguenza l’adulto dovrebbe provare a non intervenire quando i bambini si trovano a giocare da soli o in compagnia, perché altrimenti potrebbero interferire con la scoperta di capacità nuove e abilità non ancora conosciute. Bisogna lasciarli liberi di giocare, facendo scegliere sia il gioco che il modo in cui poter esprimere il loro pensiero, ma anche con chi giocare, se con se stessi, con un amico o anche con noi adulti: fa bene a loro, perché si relazionano con noi in modo ludico e fa bene a noi adulti, che con gli anni abbiamo un po’ perso questo meraviglioso istinto.

Dott.ssa Serena Bernabè

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(+39) 349 2734192

Per Approfondire:

Altman N., Briggs R., Frankel J., Gensler D., Pantone P., (2005) Psicoterapia relazionale con I bambini, Astrolabio, Roma

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