Relazioni terapeutiche. Riflessioni su un caso di buona separazione
Mi ero domandata più volte come sarebbe stato, provando a immaginare cosa e come lo avremmo vissuto tanto io quanto loro; un complesso di pensieri sottesi che divenne via via sempre più tangibile man mano che il momento della separazione dai miei pazienti si approssimava. Tutta una serie d’importanti accadimenti mi aveva portato ad interrogarmi nel profondo sull’opportunità o meno di continuare a seguirli in quel contesto, viste le non poche difficoltà logistiche e, in special modo, tutto ciò che da quelle era derivato. Fintanto che, un giorno di non molto tempo fa, a malincuore ma al contempo anche come “sollevata” dall’aver fatto finalmente chiarezza, mi accorsi di avere maturato la decisione di terminare, e di lasciare che i miei pazienti fossero così riassegnati e seguiti dai miei validi colleghi, geograficamente più vicini. Chiaramente, prima d’ora non avevo mai sperimentato su di me l’esperienza del distacco dai miei pazienti, e nonostante nei mesi precedenti mi fossi in qualche modo “allenata” psichicamente per quell’accadimento venturo, nei fatti, poi, la cosa si rivelò assai diversa da come me l’ero figurata, stupendomi positivamente. E’ il giorno del nostro congedo e la mia paziente, una volta occupato comodamente il suo posto, con un sorriso velatamente malinconico mi confida di avermi portato un piccolo pensiero: in un attimo prende da sotto al tavolo una busta a tema natalizio – di cui evidentemente, al momento di accoglierla, non mi ero affatto accorta – e da lì estrae una bottiglia di olio purissimo, ricavato dai rigogliosi alberi d’ulivo della sua campagna.
Nella busta troverò poi un biglietto scritto caramente da lei per me. Ovviamente, color verde oliva. Sono estremamente colpita dal gesto, come dal pensare quanto quel dono così prezioso la rappresenti appieno: in effetti, quel gesto mi permise di riflettere sul nostro rapporto terapeutico e di fare tutta una serie di considerazioni conclusive riguardanti la storia della sua vita. Associai immediatamente quel dono ad una carezza leggera, come se l’olio d’oliva avesse assunto in quel preciso momento e contesto terapeutico le sembianze di un unguento dal potere lenitivo, quasi come se la paziente mi stesse teneramente avvolgendo in una lunga coccola così da render – mi la sua assenza un po’ più morbida. Un unguento, col quale potermi in qualche modo prendere cura di quella piccola ferita lasciata dalla sua assenza. La paziente mi aveva appena fatto dono di un esempio di buona separazione, probabilmente perché l’intero percorso terapeutico condotto a due voci che l’aveva portata fin qui, le aveva rimandato esattamente questo, mostrandole come ci fossero separazioni e separazioni: alcune, in sé più dolorose e drammatiche, capaci di lasciare segni indelebili sulla propria pelle psichica – quelle che la vita le aveva abbondantemente riservato – ed altre, come quella che stava avvenendo fra me e lei, più lievi e tollerabili, in cui le due parti del rapporto possono separarsi senza che l’una sia lesiva dell’altra: un po’ come la spremitura “a freddo” cui le olive sono sottoposte nei frantoi – onde evitare che l’olio si tramuti irrimediabilmente in aceto – il nostro controtransfert è costantemente monitorato, in un gioco indispensabile di dentro e fuori, di vicinanza e lontananza, in cui le distanze sono morbidi confini che smorzano gli eccessi e che, all’occorrenza, si fanno più o meno permeabili.
D’altra parte, il processo di trasformazione che conduce le olive da uno stato (solido) all’altro (liquido) e che evidentemente stava a testimoniare in modo simbolico il passaggio di stato avvenuto nella psiche della mia paziente – dalla vecchia condizione ad una condizione neonata, finalmente rispondente alla sua natura autentica, più libera e ora in grado di svelarsi al mondo senza più paure – mi piace pensare che l’abbia condotta fino all’essenza di sè, la stessa essenza che lei mi aveva lasciato in fondo a quella bottiglia di olio bio in tutta la sua purezza e dentro la quale, in nome di una salda fiducia instauratasi nel tempo, mi aveva generosamente permesso di guardare, mettendosi a nudo.
Ciascuno dei nostri pazienti, porta con sé un modello relazionale di base che si compone di schemi, pensieri, sentimenti e comportamenti costituenti il frutto delle primissime interazioni con le figure più significative della propria infanzia, che può esser stato più o meno fallimentare: questa traccia è divenuta precocemente parte del proprio mondo fantasmatico ed è da essa che il paziente avrà tratto spunto, per lo più inconsciamente, un po’ come fosse la mappa fedele che guida verso un sentiero nascosto, per intessere tutte le sue successive relazioni oggettuali nel mondo esterno.
Nella situazione analitica, tale schema finisce con l’essere riproposto in modo assai evidente ed intenso, venendo cioè ripetuto e ri – attualizzato con noi terapeuti nel “qui ed ora” della dinamica transferale (per un approfondimento, si rimanda all’articolo Nella stanza d’analisi – La svolta in un agìto). Ecco che allora, lo spazio terapeutico si presta perfettamente ad incarnare un primo valido esempio finalmente “correttivo” proprio di quei modelli d’interazione anticamente introiettati, assolvendo così alla funzione riparativa che ogni percorso psicoterapeutico dovrebbe quantomeno assumere in sé e contribuendo a promuovere nel paziente la consapevolezza che le proprie interazioni tutte, da quel momento in avanti, potranno finalmente poggiare su ben altri presupposti e concludersi in un modo – altro (non necessariamente fallimentare), a dispetto di quanto la propria storia personale gli abbia fin qui raccontato e insegnato.
Dott.ssa Carmela Lucia Marafioti
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Per approfondire:
Terminio N. (2009) Misurare l’inconscio? Coordinate psicoanalitiche nella ricerca in psicoterapia. Bruno Mondadori, Milano.