Obesità. L’imbottitura dell’anima

Sono una psicologa e lavoro con pazienti con obesità.

Molte persone mi hanno chiesto in diverse occasioni “cosa ci fa” una psicologa con gli obesi, “gli prescrivi una dieta?”, “vai a correre con loro?”, scherzano. Me lo sono domandata anche io “cosa posso farci”, nel momento in cui per tutta una serie di motivi sono finita a lavorare con questa patologia. È importante domandarsi la ragion d’essere del proprio lavoro, qualunque esso sia, in ogni occasione, anche laddove questa ragion d’essere sembri scontata. Ebbene da questo mio interrogarmi, come sempre accade quando si complica una questione, non è arrivata una risposta chiara e lineare, ma un insieme di riflessioni, che derivano appunto dalla pratica clinica, che desidero condividere con i lettori. La scrittura infatti, così come la parola, il racconto che si fa ad un amico, serve spesso a questo, a mettere ordine, ad inserire eventi apparentemente disordinati e sconnessi tra loro all’interno di una narrazione, che fornisca quindi una cornice, un ordine di senso a ciò che sta accadendo.

Dunque, l’obesità. Giusto un accenno alla definizione: l’obesità, patologia estremamente diffusa al giorno d’oggi, ed in continuo ed esponenziale aumento soprattutto nei paesi occidentali, viene definita a livello medico come un aumento ponderale eccessivo rispetto a quello che sarebbe auspicabile in relazione a genere, età ed altezza della persona. L’aumento eccessivo di peso, oltre ad arrecare difficoltà dal punto di vista quotidiano e pratico, è un fattore di rischio importante per tutta una serie di complicazioni mediche e spesso implica conseguenze anche sul piano psicologico. A questo punto sembra che la risposta alla domanda iniziale sia già soddisfatta: lo psicologo può lavorare con il paziente con obesità, supportandolo e cercando di alleviare “il peso” psicologico dell’avere a che fare con la propria patologia.

Invece no. Lo psicologo non è soltanto un supporto nei momenti di difficoltà della persona. Lo psicologo è una figura professionale che lavora con le parole (quelle dette e quelle non dette), risultato dei pensieri (più o meno consapevoli) e degli stati d’animo (più o meno consapevoli) di una persona. Una volta ascoltato il paziente, lo psicologo ha un importantissimo compito: dare un senso alla sua narrazione. Che sia un semplice riordinare gli eventi dal punto di vista cronologico, che sia un trovare delle connessioni tra i fatti narrati, che sia un permettere al paziente di poter osservare, da una distanza di sicurezza e con il giusto supporto, la propria storia proiettata come un film, ed identificarne quindi egli stesso un senso, un filo rosso, sottostanti.

Ed è qui che vorrei condividere con i lettori l’intuizione che ho avuto lavorando a stretto contatto con le persone con obesità. Il cibo, sappiamo bene, non ha solo una funzione di sopravvivenza, non ha il solo fine del nutrimento (per un approfondimento, si veda l’articolo “dipendenza da cibo- il legame tra nutrimento ed emozione” sulla rivista di febbraio 2015). Il cibo è il primo contatto relazionale che abbiamo, con la mamma od un suo surrogato, che, allattandoci, prendendosi cura di noi, ci trasmette nutrimento ma anche affetto, relazione. Mangiare ha dunque un importante significato legato al potersi sentire amati da un altro essere vivente, in un momento di profonda vulnerabilità, come l’infanzia. Nel corso della nostra vita, questo primo schema appreso subito dopo la nascita, diventerà un rituale quotidiano che assumerà tanti diversi significati di volta in volta.

Ma quello di cui ci occupiamo in questo articolo non è il significato simbolico del mangiare (per un approfondimento, si vedano gli articoli “Anoressia-tra narcisismo e conflitti interiori” e “Bulimia nervosa-una fame da bue”, rispettivamente sulla rivista di maggio e giugno 2015), quanto il significato simbolico che assume il peso per le persone con obesità.

La persona con obesità accumula peso oltremodo, per tutta una serie di motivazioni, rendendo così le sue forme visibilmente più rotondeggianti e morbide. La persona si confronta allo stesso tempo continuamente con un modello sociale di immagine corporea che si colloca al polo opposto rispetto a quella della persona con obesità. Lo stigma sociale ed il disprezzo per se stessi, conseguenza quest’ultima dell’introiezione del modello sociale, sono conseguenze assai comuni in questa situazione. Ma il peso, oltre ad essere un acerrimo nemico, è spesso una solida e morbida imbottitura per l’anima, o meglio, per i buchi dell’anima.

Sappiamo che la pelle rappresenta una membrana permeabile tra il “nostro dentro” ed il “nostro fuori”, è l’involucro attraverso il quale facciamo uscire, dopo averlo più o meno attentamente filtrato, quello che di noi vogliamo mostrare al mondo esterno, è insomma un mezzo di comunicazione con gli altri-da-noi (per un approfondimento si rimanda all’articolo “il Tatuaggio- storie incise sulla pelle” sulla rivista di gennaio 2015).

Secondo questa lettura, il nostro “peso in più” è quello che si colloca quindi subito al di sotto della membrana della pelle, e allo stesso tempo subito al di fuori degli organi vitali, dove, a livello simbolico, risiede il nostro Vero Sé. È in quest’ottica che potremmo leggere l’obesità come il risultato di un meccanismo adattivo, una difesa messa in atto dal nostro organismo per poter proteggere le parti di noi più vulnerabili, evitando che vengano messe a repentaglio.

In molte storie di persone con obesità è possibile riscontrare un “buco” nell’anima, un momento in epoca precoce di grande dolore nella propria storia di vita, momento in cui probabilmente l’individuo non aveva ancora gli strumenti per far fronte all’evento, motivo per il quale ha dovuto cercare delle soluzioni “creative” per poter sopravvivere. Detto in altre parole, il peso in più della persona con obesità non rappresenta altro che una morbida gommapiuma per non doversi esporre “nudi” agli urti della vita.

È in quest’ottica che trovo un senso nel mio lavoro con le persone con obesità. Nell’ottica in cui vedo un buco che si è cercato di riempire come si poteva, con i mezzi che si avevano a disposizione. Perché in fondo l’unica cosa di cui siamo certi è che l’individuo tende alla vita ed alla sopravvivenza (talvolta attraverso la pulsione opposta, come ci suggerisce Freud, ma tende pur sempre alla vita; per un approfondimento si rimanda alll’articolo “La Resilienza- i veri eroi sono quelli che resistono” della rivista di dicembre 2014).

Lo scopo del lavoro con le persone con obesità è quindi cercare di identificare questi “buchi”, questi nuclei e lavorare ridistribuendo la “disposizione interna” per poterli vedere e riempire. Il lavoro psicologico e simbolico è quindi centrale ma non può non integrarsi a quello di altre figure professionali, come medici, nutrizionisti ed esperti dell’attività motoria, per poter attribuire un peso adeguato ed un intervento unitario ad una patologia che merita di essere considerata in tutta la sua affascinante complessità.

Dott.ssa Giulia Radi

Riceve su appuntamento a Perugia
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giulia.radi@hotmail.it

Per approfondire:

 

Bost KK, Wiley AR, Fiese B, Hammons A, McBride B. Associations Between Adult Attachment Style, Emotion Regulation, and Preschool

Children’s Food Consumption. J Dev Behav Pediatr. 2014; 35:50–61.

Bowlby J. Attachment and Loss: Loss, Sadness and Depression. Vol 3. New York, NY: Basic Books; 1980.

Mazzeschi C, Pazzagli C, Laghezza L, Radi G, Battistini D, De Feo P. The role of both parents’ attachment pattern in understanding childhood obesity”. Frontiers in Psychology, 2014

Sanzo F. “102 chili sull’anima.  La storia di una donna e della sua muta per uscire dall’obesità, 2013 

Winnicott, D. Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, 1976.

World Health Organization. Obesity: Preventing and Managing the Global Epidemic: Report of a WHO Consultation on Obesity. World Health Organization: Geneva, Switzerland; 1998.

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