Psicopatologia della società moderna. Figli del materialismo
Concretismo, materialismo e razionalizzazione.
Le tre parole che caratterizzano la nostra società occidentale, che non è altro che l’evoluzione incontrollata del pensiero illuminista del passato.
Viviamo in nome della scienza, dunque di causa ed effetto, del visibile. Tutto ciò che non è visibile all’occhio umano non è più contemplato come reale, vero: Scientifico.
È il più profondo terrore della maggior parte degli psicologi, sentirsi dire che la loro tecnica non è supportata da basi scientifiche. Ed ecco dunque che quest’ultimi divengono il fanalino di coda di psichiatri e neurologi, tentando invano di essere riconosciuti come medici e non cartomanti: “Vedete, la depressione esiste, c’è uno scompenso della melatonina!”.
Se da un lato cercare risposte scientifiche ad un metodo psicologico o psicoterapeutico può fornire ai lavoratori della psiche uno strumento in più per tutelarsi dai miscredenti, dall’altro l’utilizzo di internet e di notizie scritte a metà, estrapolando unicamente i contenuti più convenienti, porta la società a convincersi che se la depressione è uno scompenso della melatonina, dunque conviene curarla unicamente con farmaci.
Se un individuo soffre di ansia, evidentemente la propria amigdala fa i capricci: benzodiazepine e valeriana. Secondo il DSM 5 (Manuale diagnostico-statistico dei disturbi mentali) anche il lutto, se protratto per mesi, diventa patologia.
La reale patologia risiede però nella nuova società, produttrice di peter pan (per approfondimenti si rimanda all’articolo “I Giovani Peter Pan di oggi- volere o volare” nella rivista di Aprile 2015 ), di persone che non hanno voglia ne capacità di responsabilizzarsi, parlare. Ciò è attribuibile sia ad alcuni psicoterapeuti che se falliscono nella propria professione non possono incolparsi, in quanto hanno seguito meccanicamente e meticolosamente il metodo scientifico senza considerare la soggettività del paziente e la relazione che si crea (a prescindere dall’approccio utilizzato), sia alle persone che sono disposte a credere che la propria tristezza o paure dipendano da un malfunzionamento ormonale o neuronale (escludo da tale discorso tutte le patologie psichiatriche conseguenti a disturbi organici, come Alzheimer, traumi cranici ecc.). Ciò provoca una rassegnazione nell’individuo, che non cercherà mai un cambiamento o il tentativo di superare i propri ostacoli, poiché si ritrova stigmatizzato nella propria patologia. Sopraggiunge l’esigenza che se si è tristi per una perdita importante, non si è più disposti a integrare tale emozione in un ciclo di vita naturale, ma, piuttosto, si tenta in ogni modo di sedarla e reprimerla con farmaci mirati.
“Sono depresso perché anche mia madre lo era: predisposizione genetica”.
La predisposizione genetica porta l’individuo a rispondere con più probabilità ad un determinato stimolo con una determinata risposta. Ciò non vuol però significare che, se un bambino ha vissuto con una madre depressa, da cui ha ricevuto pochissimo amore, da grande sarà depresso per predisposizione genetica, ma lo sarà perché dentro di sé non si è creato un Io sufficientemente amato e, dunque, sicuro di sé. A differenza di un marchio genetico che ti condanna per tutta la vita, nel secondo caso sarà possibile per la persona integrare, con altre esperienze di vita, vissuti d’amore in un Io che si crea giorno per giorno.
La struttura e il funzionamento psichico si costituiscono mediante una moltitudine di fattori, organici, sociali e psicologici che interagiscano tra di loro in maniera dinamica creando un sistema complesso; pertanto teorie che affermano “A comporta B” saranno necessariamente carenti e semplicistiche.
Al di là del lavoro psicologico, nella nostra società, l’empatia nei legami inizia a venir meno, poiché si preferisce parlare dei propri problemi attraverso espressioni sintomatologiche, come le intolleranze alimentari, con le tante relazioni finite male, con le mille sigarette, con la gastrite, i mal di testa e la stitichezza. D’altronde la società ci porta a temere il nostro mondo emotivo poiché ella stessa la teme, in quanto vi è un timore archetipico che le forti emozioni possano disintegrare le strutture sociali e la società. Ciò, infatti, spiega il perché i malati vengano etichettati con la patologia che hanno, e unicamente secondo un mero discorso economico, portando quindi gli operatori sanitari al burn out garantito. Macchine che curano, pazienti come oggetti, l’angoscia di morte negata e repressa, perché temuta come movimento distruttore.
In conclusione, le preziose ricerche scientifiche rispetto al lavoro della mente vengono sistematicamente deturpate e frammentate dai mass media, permettendo l’accessibilità di tali informazioni al vasto pubblico senza fornire le giuste premesse: la mente è composta da organicità che può influire sul mondo psichico, ma viceversa anche quest’ultimo gioca un ruolo fondamentale rispetto al costituirsi delle nostre emozioni, della nostra personalità e alla maniera di percepire la realtà. Solo accettando la possibilità che la propria personalità derivi dalle proprie esperienze e dai modelli relazionali appresi dai propri caregivers, sarà possibile responsabilizzarsi e porre le basi per l’attuazione di un eventuale cambiamento di atteggiamenti o vissuti emotivi disadattavi.
Dott. Dario Maggipinto
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Per approfondire:
R. Guenon, 1982, Il regno della quantità il segno dei tempi, Gli Adelphi