Il leader “disteso”: un manager sul lettino. Dipendenze, lavoro, leadership
“Non ho che te
Non ho che te
E l’altro giorno
ho visto il titolare
Aveva gli occhi gonfi
La giacca da stirare
Mi ha visto
si è girato
stava male
Aveva gli occhi vuoti
La barba da rifare”
(Non ho che te; Ligabue)
In questa canzone Luciano Ligabue prova a descrivere il senso di appartenenza, di bisogno (e di smarrimento…) dovuto alla precarietà del mondo lavorativo, tanto per i dipendenti quanto per chi decide le sorti di un’azienda e, ancor prima, del personale. Nel testo viene menzionato il titolare per le sue caratteristiche più manifeste, più osservabili, le uniche forse che parrebbero riflettere una certa debolezza, una fragilità che il mondo del business occidentale non sembrerebbe concedere al grande e piccolo manager. Slogan e stereotipi, ancora presenti, alimentano da anni il modello del capo d’azienda sempre attivo, produttivo, instancabile ed insensibile, vincente perché poco umano, il classico dirigente con la sindrome… del capitano.
Considerando queste persone (in modo più generale) come rappresentanti di una categoria, quella dei manager, dei business-man, si potrebbe considerare come queste siano abituate ad impiegare le loro ore quotidiane in un ambiente spesso competitivo ed imprevedibile, pensando ed agendo con grande velocità e grandi incertezze, sottoponendosi ad elevati rischi gestionali, relativamente ad una specifica area professionale o all’intera gestione d’azienda. La capacità di saper leggere il rischio ed il beneficio con il minor danno possibile, l’attitudine nel risolvere problematiche e compiti sfidanti, domande pressanti e missioni spesso “al limite”, rappresentano qualità molto richieste ed apprezzate nel mondo lavorativo. Significa mostrare un volto, quello del successo garantito e della fiducia di sé, servendosi spesso di una maschera di cera. Questa infatti cela poco e male uno stress che c’è …ma non può esistere. Per un approfondimento sul tema si rimanda all’articolo Lo stress – Cause e conseguenze di una vita stressante. Riuscire in imprese che sembravano impossibili, trovare soluzioni nuove e vincenti ed impedire perdite sicure, può infondere uno stato di gratificazione enorme. Questa viene preceduta spesso da un vissuto adrenalinico, quotidiano e funzionale, quel carburante che dovrà essere sempre garantito “perché la macchina non si fermi”. E’ facile intuire però, come una radicata identificazione con il proprio ruolo, con la credenza del dover essere sempre pronti, connessi h.24 comporti perdite che non possono essere tollerate, tanto a livello fisiologico quanto mentale.
Fenomeni ormai noti come il distress organizzativo o la workaholism (dipendenza da lavoro), hanno evidenziato come queste persone recitino spesso un ruolo, un personaggio, una figura di scena che parrebbe nascondere e proteggere l’autenticità e la legittima vulnerabilità di ogni individuo. Queste persone dall’aura invincibile ed estremamente resistente, pongono ben altre forme di “resistenza” quando viene chiesto loro di mostrare un qualche segno di debolezza o fragilità.
Appare facilmente intuibile, considerate tali premesse, come il grande leader sia spesso restìo nel chiudere aiuto ad un soggetto “terzo”. Questa possibilità viene, infatti, spesso esclusa, ritenendo questa come lo spettro di capacità personali che sembrerebbero essere meno presenti di un tempo. Alcune persone che appartengono a tale categoria sembrano maturare l’idea di un aiuto, psicologicamente inteso, come la delega forzata di un potere, quello della comprensione. Il manager in crisi si troverà dunque ad un bivio: negare un problema o risolverlo…imponendo i propri schemi. La tendenza nel formare, guidare, gestire, valutare altre persone può creare nel leader d’organizzazione la credenza di essere l’unico in grado di disegnare un percorso, il solo che possa tracciare una via (di successo) che altri “dovranno” soltanto seguire. Successiva alla fase dell’auto-cura e a quella della medicalizzazione veloce e pragmatica, la richiesta di aiuto nelle fattezze del clinico sembrerebbe tratteggiare e prevedere soluzioni del tipo “tutto e subito”, coerentemente allo stile cognitivo del causa-effetto ed alla sempreverde bilancia del rapporto costi/benefici. Cosa bisognerà aspettarsi dal clinico? E cosa da questo potenziale paziente? Le domande che solitamente vengono poste in un primo colloquio, utili sia al professionista che al paziente per orientarsi, al contrario parrebbero creare, in questo caso, un senso di smarrimento, di inefficacia ed impotenza che pongono il leader nella condizione di “porre rimedio” immediato verso tale condizione nuova…Questi tenterà dunque ad orientare il lavoro verso una dimensione controllante, una prospettiva da cui sia possibile riprendere presto la cognizione e la gestione del “protocollo terapeutico”.
Creare una reale alleanza terapica, un legame di fiducia e collaborazione con questa figura dominante potrebbe non essere facile per il clinico. Proporre un “contratto” di lavoro con questo paziente appare come un compito arduo, considerando la probabile ed iniziale inversione dei ruoli. Secondo tale ottica, sarebbe infatti il leader a condurre tale intesa, valutando e definendo il contratto attraverso domande nette e precise: “Mi assicura di essere in grado di darmi ciò che le chiedo?” oppure “Conosce soluzioni veloci per questo tipo di problema?” Risposte meno precise e definite rispetto a tali quesiti, possono innescare un sentimento di iniziale svalutazione nei confronti del terapeuta, reo di “non comprendere appieno la problematica” o di “non essere al passo con il proprio interlocutore”. Una condotta che riflette un desiderio tanto ansiogeno quanto pretenzioso: sapere prima di capire. Raccontare la propria storia familiare o il sottoporsi a test può facilmente essere considerata una grande perdita di tempo, una strategia inutile che viene messa in discussione dal leader. Questo aspetto solitamente non viene trascurato dal clinico, il quale, più che in altre situazioni, dovrà riflettere sul disagio nel sentirsi giudicato amaramente. Come uscire da questo impasse?
La chiave, ancora una volta, è rappresentata dalle competenze che vengono messe in gioco. Le conoscenze e le relative competenze che il terapeuta potrebbe sfruttare per creare un diverso canale con il proprio paziente, sono diverse ma tutte di primaria importanza. Oltre a quelle che appaiono come fondamentali nel prendere in carico una persona che lamenta una serie di difficoltà, ve ne sono di più specifiche, orientate all’unicità del soggetto e del proprio ruolo. In tal senso una conoscenza reale del funzionamento e del contesto aziendale, delle dinamiche socio-organizzative e degli aspetti patogeni annessi, consentirebbe la co-costruzione di un linguaggio che tenga conto tanto della persona quanto del suo peculiare habitat. Considerare uno solo di questi aspetti e non l’insieme di questi, oltre a rappresentare un rischioso errore di valutazione potrebbe costituirsi come un auto-impedimento al processo analitico, un unico binario costituito da due rette (persona e “personaggio”) che non avrebbero modo di incrociarsi e muoversi diversamente.
Riappropriarsi di una vulnerabilità, concedersi il lusso di essere “anche” una persona potrebbe costituire un obiettivo centrale in questo tipo di percorso. Come sostiene Kets de Vries (1999) “il manager è, come tutti, un essere vivente “a razionalità limitata”, che vive in un mondo del lavoro solo apparentemente razionale”.
Dott. Gianluca Rossini
Email: rossini.gianluca@outlook.it
Per Approfondire:
Guido Sarchielli: “Psicologia del lavoro”, Ed. Il Mulino, 2015
Daniel Kahneman: “Pensieri lenti e veloci”, Ed. Mondadori, 2017
Daniel Goleman: “Essere leader”, Ed. Rizzoli, 2004
Dale Carnegie: “Come vincere lo stress e cominciare a vivere”, Ed. Bompiani, 2014