Psicologia in Musica. Le radici ca tieni dei Sud Sound System
“Vengo dalla terra dove c’è sempre il sole
E per quelli che arrivano c’è sempre il mare”
Mettere radice (o radici o le radici), detto di una pianta, sviluppare le radici nel terreno e in questo modo vivere; detto di un’idea, di un sentimento, di un’usanza, penetrare in profondità, affermarsi saldamente; detto di persona, sistemarsi in modo stabile in un luogo
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Non piace così tanto soltanto per il contenuto ma anche per come le parole si dispiegano lentamente e poi prepotentemente su quella base Reggae che assomiglia al ritmo del battito cardiaco quando la prima nota manda l’impulso al cervello. Questa, canzone tipicamente estiva da ballare a piedi nudi sulla sabbia, coi piedi per terra … Questa terra, la terra che abbiamo calpestato da bambini, quella circondata dal mare. Anche l’acqua del mare è sempre la stessa, quella che ci è entrata nel naso e nella gola mentre imparavamo a nuotare.
Se nu te scerri mai de le radici ca tieni
rispetti puru quiddhe de li paisi luntani
se nu te scerri mai de du ede ca sta bieni
dai cchiu valore alla cultura ca tieni!
Simu Salentini de lu mundu cittadini
radicati alli Messapi cu lli greci e Bizantini
uniti intra a stu stile osce cu lli Jammaicani
dimme tie de ddu ede ca sta bieni!
I fenomeni migratori che vedono protagoniste la nostra terra (chi va, chi viene) ci fanno pensare ogni giorno: la vita (nessun morto in mare oggi, sono partito ho trovato lavoro) e la morte (morti mille migranti in mare, padre di famiglia suicidatosi perché non riusciva a garantire un sostentamento adeguato alla famiglia)_ Sono Eros e Thanatos che si incontrano sulla superficie dell’acqua e che poi a volte annegano insieme. Se ce ne andiamo da dove proveniamo, se lasciamo tutto quello che amiamo, che per noi è familiare e vitale non smettiamo di essere quello che siamo. Le nostre radici, quelle che non dimentichiamo mai restano dentro di noi. Andiamo via, kilometri ci possono separare dai “nostri luoghi” e ciò che ci portiamo dietro è nostro bagaglio culturale. Ci apriamo ad una domanda: con quello che sono, con ciò che porto dentro di me, con ciò che di nuovo vedrò e respirerò, cosa diventerò? Quanto di quel posto nuovo potrebbe entrarmi nel cuore? Forti di quella corazza: la nostra cultura, come un innesto nel patrimonio genetico, nel battito di quel cuore appunto; la cultura che ognuno di noi possiede non è un prodotto asettico e a sé stante privo di contaminazioni, anzi, tutt’altro, è un mondo di colori, suoni, usanze che si mischiano tra di loro, per fondersi, per compenetrarsi e dare vita a quello che ci determina: la nostra cultura, quella del mondo. Se non riusciamo a mettere da parte la nostra cultura, le nostre radici, ma anzi cerchiamo di farle venire fuori quando ci troviamo in un paese che non è il nostro, a livello inconscio cerchiamo probabilmente di incrementare il processo di adattamento all’ambiente, non dimentichiamo che anche chi ci ospita ha le sue di radici, usi abitudini. “Se nu te scerri mai de le radici ca tienirispetti puru quiddhe de li paisi luntani”: il rispetto per quel “diverso”, altro da me, fuori da me, che fa parte di me perchè il suo paese è legato al mio e il mio al suo.
Egnu dellu Salentu e quannu mpunnu parlu dialettu
e nu mbede filu nu ca l’italiano nu llu sacciu
ca se me mintu cu riflettu parlu lu jammaicanu strittu
perchè l’impurtante è cu sai nu pocu de tuttu
anche se de tuttu a fiate me ne futtu
ma se na cosa me nteressa su capace puru me fissu
se ete quiddrhu ca oiu fazzu me mintu ddhrai e fazzu cè possu
perchè aggiu bessere io ca decidu pe mmie stessu
Ca la vera cultura è cu ssai vivere
cu biessi testu ma sempre sensibile Puru ca la vita ete dura è meju ssai amare
puru quannu te pare ca ete impussibile
Il linguaggio che caratterizza i diversi popoli del mondo è uno dei punti caratterizzanti l’essere di ognuno di noi. Come parli, mi dice chi sei. Il dialetto, la lingua dei poveri, della gente di basso livello socioculturale è invece la più grande ricchezza che abbiamo. Il dialetto che richiama i suoni delle nostre terra. Ognuno il suo. Il dialetto, la radice linguistica che è davvero un peccato non conoscere. Non conoscere e non riconoscere la terminologia legata al proprio dialetto potrebbe corrispondere ad una mancanza interna? A un “qualcosa che manca” nel pensiero, nella mente, come un magazzino della memoria che resta vuoto. Sappiamo tutti dell’esistenza di forme dialettali e proverbiali in grado di spiegare anche se grossolanamente ma rapidamente alcune verità quotidiane che ci appartengono, che sembrano chiarire . La vera cultura, quindi, saper vivere, con la capacità di essere oggi in un modo, domani in un altro, tenendo uniti tutti i tasselli (ho la laurea sì e parlo il mio dialetto, così come parlo, l’inglese, il tedesco, l’arabo, il francese e lo spagnolo). Quale cosa ne esclude un’altra?.
Me la difendu,la tegnu stritta cu lu core
la cultura mia rappresenta quiddhu ca è statu e ca ha benire
intra a stu mundu, a ddu nu tiene cchiu valore
ci parla diversu o ede diversu de culure!
La cultura che ci rappresenta, componente essenziale del nostro essere, cemento necessario per la costruzione di una salda identità sociale.
Te leanu tuttu,puru la voglia d’amare
cussì ca tanta gente a pacciu modu stae reagire!
Te leanu tuttu,puru le ricchie pe sentire
ci chiange e chiede aiutu pe li torti ca sta a subire
Te leanu tuttu,puru la terra te sutta a li piedi,
se cattanu tuttu quiddhu a cui tie nci tieni.
Me dispiace pe tuttu quiddhu ca ne sta gliatima stamu ancora quai,
de quai nu ne limu mai sciuti!
Radici che si sdradicano a volte “Te leanu tuttu”: chi scappa dalla guerra, chi va via dal proprio paese per cercare lavoro, per sopravvivere, chi per migliorarsi deve necessariamente partire perché il tuo paese, quello in cui sei nato non ti dà l’opportunità di crescere, la mancanza di opportunità lavorative, vorticosamente senza pietà, fa si che le radici si spezzino; c’è chi decide di restare, di credere che le cose andranno meglio anche se il terreno dove si sono innestate quelle radici non è sempre fertile, anzi è un terreno tortuoso e pieno di ostacoli, ma è sempre quella terra, tutto sommato è sempre quell’acqua.
Ca la vera cultura è cu sai idire
la realtà pe quiddha ca ede sia ca è facile ca è difficile
la cultura vera è cu sai capire
ci tene veramente bisuegnu ci ete lu chiu debule
Rappresentarsela “dentro” questa cultura, intrinsecamente radicata, apre la mente, espande la capacità di pensare. Ma a volte la chiude: la cultura non ammette forme di razzismo, si esplica tramite l’accoglienza verso chi è più debole, verso chi è stato costretto a stare lontano dalla propria famiglia, a subire torti e ingiustizie. La cultura del saper mettersi nei panni dell’altro, che ha una storia diversa, radici diverse ma a volte, alle spalle, lo stesso vissuto doloroso. Accettare di poter entrare a contatto con le altre culture, può spaventare perché “ci mette di fronte a ciò che non conosciamo”, allora la cultura vera è cu sai capire.
“chep gen” è il riso che si mangia con le mani
E “mu nu mu cu bbai” vuol dire non posso farne a meno
Sembra africano: è dialetto salentino. Quanto siamo diversi? Forse non così tanto poi. Così come lo sciamano delle tribù tirava fuori l’ ”oggetto malattia” dall’anima e dal corpo del malato, così il terapeuta prova a estrarre ciò che causa di disagio e di malessere per il paziente e lo risana.
Vengo dalla terra dove c’è sempre il sole
E per quelli che arrivano c’è sempre il mare!
E cerco di spiegartelo perché tu possa non dimenticarlo!
Difendila!Quando puoi difendila!E’ la tua terra, amala e difendila!
“Viviamo in un pianeta chiamato Terra … Che di terra, in verità, ne ha veramente poca (fu errore dei nostri antenati pensare il contrario)… E poi c è il mare … Assassino e meraviglioso allo stesso tempo e noi, che siamo abituati ad averlo ogni giorno ne sentiamo la mancanza più di tutto il resto. Culture che sono più simili di quanto si immagina … Eppure, siamo circondati da gente che le vede lontane. Un unico mondo suddiviso in migliaia di paesi … Miliardi di lingue e miliardi di usanze, tradizioni che si tramandano di generazione in generazione e che non siamo capaci di accettare anche se a separarci è’ solo un po’ d acqua”
(Silvia, Croce Rossa Italiana)
Nu te scierri
Dott.ssa Gabriella Papadia
Per Approfondire:
Devereux, G. (2012). Saggi di etnopsichiatria generale. Armando editore.
Ellenberger, H. F., & Bertola, W. (1976). La scoperta dell’inconscio: storia della psichiatria dinamica. Boringhieri.
Erikson, E. H. (1995). Gioventù e crisi d’identità. Armando Editore.
Losi, N. (2000). Vite altrove: migrazione e disagio psichico. Feltrinelli Editore.
Martelli, P., & De Micco, V. (Eds.). (1993). Passaggi di confine: etnopsichiatria e migrazioni. Liguori.
Quello che devo comprendere sta scritto su queste pietre